Viganò: la centralità del cinema nell’esperienza dei Giubilei
Eugenio Bonanata – Città del Vaticano
Il rapporto tra il cinema e i Giubilei nella seconda metà del Novecento. Questo il tema al centro dell’intervento che monsignor Dario Edoardo Viganò, presidente del centro di ricerca CAST dell’Università telematica internazionale Uninettuno e della Fondazione Memorie audiovisive del cattolicesimo (MAC), tenuto oggi, 5 gennaio, a New York, al meeting annuale organizzato dall’American Catholic Historical Association. Quattro gli appuntamenti giubilari presi in esame nella relazione di Viganò, svolta nel panel intitolato Media Jubilees: History of the Holy Years through Mass Media: il Giubileo del 1950 di Pio XII, quello postconciliare del 1975 di Paolo VI e, infine, i due indetti da Giovanni Paolo II nel 1983 e nel 2000. “Seppur molto diversi tra di loro – ha affermato Viganò – questi appuntamenti hanno rappresentato una tappa fondamentale nella relazione tra la Chiesa e i media di massa, amplificando la capacità di Roma di attirare i riflettori sul soglio petrino, ponendo il pontefice all’apice di un processo informativo che coinvolgeva gran parte dell’orbe cattolico e permettendo di raggiungere un ampio e interessato pubblico di fedeli-spettatori in ogni angolo del mondo”.
Cambio di paradigma
Un percorso lungo cinquant'anni, legato senz’altro a particolari contesti storico sociali, che via via evidenzia un tratto comune: “Un vero e proprio cambio di paradigma nella rappresentazione del sacro che certamente ebbe nell’audiovisivo un protagonista indiscusso”, ha sintetizzato Viganò. Un’ipotesi particolarmente evidente nel Giubileo del 2000. “Venne giustamente definito come il ‘primo Giubileo dell’era telematica’”, ha precisato Viganò sottolineando l’irrompere e l’ampio sfruttamento delle tecnologie informatiche che hanno permesso di modificare l’esperienza collettiva attraverso un coinvolgimento su larga scala di un ampio pubblico. All’inizio del millennio, il potere della televisione era enorme e certamente maggiore rispetto a quello del cinema. Eppure, Giovanni Paolo II aveva un forte interesse nei confronti del mondo cinematografico e nello stesso tempo godeva di un certo appeal legato anche ai suoi numerosi gesti che l’hanno posto al centro dell’immaginario collettivo. Non c’è da meravigliarsi del fatto che furono numerosi i documentari e i cortometraggi realizzati sull’Anno Santo del 2000 nonché sulla fase preparatoria. Segno – ha precisato Viganò – “della volontà della Santa Sede di sfruttare le potenzialità del mezzo cinematografico per trasformare un appuntamento radicato nella tradizione in un grande evento globale”. Tant’è – ha proseguito – che “la necessità di rispondere adeguatamente alle sollecitazioni del sistema massmediale portò alla scelta di affidare ad un grande regista quale Ermanno Olmi la regia televisiva del momento inaugurale dell’apertura della Porta Santa”.
Il Giubileo del '75 e la prima trasmissione in mondovisione
Successe la stessa cosa anche nel 1975, quando Franco Zeffirelli venne ‘ingaggiato’ per la regia televisiva della cerimonia del 24 dicembre 1974 che per la prima volta venne trasmessa in mondovisione. Indicativi furono i ricordi del regista riportati sulle colonne del Corriere della Sera, che svelarono le richieste della Santa Sede per la diretta: mantenere le telecamere lontane da Paolo VI, evitare i primi piani del Pontefice e comunque riprenderlo il meno possibile. Tali esigenze sembrano rappresentare un atteggiamento di chiusura o comunque un passo indietro in sintonia con lo stile di Pio IX il quale nel 1925 escluse la possibilità di riprendere la sua figura pur concedendo ampia apertura agli operatori durante le cerimonie giubilari. Eppure, il tutto appare in sintonia con il rapporto tra la Chiesa e la settima arte nel periodo postconciliare. In verità, fu rilevante anche la personalità di Papa Montini. “Paolo VI – ha spiegato Viganò – non era una figura che, per usare un gergo televisivo, bucava lo schermo come il suo predecessore Giovanni XXIII. Dalla stampa è stato spesso definito un Papa indecifrabile nelle sue intenzioni più profonde, in bilico tra tradizione e innovazione. Questo rappresentò un problema in un sistema comunicativo e mediale sempre più impostato sulle immagini carismatiche capaci di impressionare le masse”.
Il ruolo del cinema
Nonostante queste difficoltà, il cinema continuò a giocare un ruolo significativo. Sebbene – ha proseguito Viganò – “quello del 1975 deve essere considerato il primo Giubileo pienamente televisivo per la ricchezza e pervasività della copertura che venne garantita all’evento in tutto il mondo”. Obiettivo costante anche per il Giubileo del 1950, malgrado le evidenti differenze contestuali rispetto al 1975. Secondo Viganò “si tratta del Giubileo cinematografico per eccellenza visto che, prima che la televisione lo soppiantasse quale medium audiovisivo dominante, il cinema era allora all’apice della sua potenza e diffusione”. E c’è da considerare anche l’importante transizione tecnologica in atto in quel periodo: quella della conversione al colore, che conferì un maggiore slancio al cinema. Tra gli esempi, Viganò ha citato il curioso caso di Mater Dei: “È stato il primo lungometraggio a colori, dal vivo e a soggetto, mai realizzato in Italia, uscito un anno prima del più celebre ‘Totò a colori’, che in genere è ritenuto il precursore in questo campo”.
All’epoca - carte alla mano - si registrò una massiccia mobilitazione da parte degli operatori del settore cinematografico di tutto il mondo che chiedevano alla Santa Sede di procedere alla realizzazione di film e documentari sull’argomento. Scesero in campo persino i player di Hollywood, e il comitato centrale dell’Anno Santo agevolò questa vitalità produttiva tesa ad appoggiare i messaggi chiave del Giubileo caratterizzati dai toni trionfalistici e dalla magniloquenza nelle liturgie per indicare la centralità della Chiesa in un nomento storico segnato dal grande vuoto provocato dalla caduta dei regimi totalitari.
Alla fine, questa mobilitazione non venne apprezzata a pieno. Anzi. Venne letta da alcuni come una speculazione sul significato più profondo dell’evento giubilare. Viganò ha spiegato che “piacque molto poco agli ambienti cattolici più intransigenti”. Costoro “videro questa ‘corsa’ al guadagno sulle cose sacre uno dei più grandi fallimenti della cinematografia dell’Anno Santo”. Si trattava probabilmente di un giudizio oltremodo severo visto che in verità il cinema riuscì a ritagliarsi nel Giubileo del 1950 un ruolo tutt’altro che marginale. “Uno spazio nel sistema mediatico che – ha concluso monsignor Viganò – in questa forma, non sarebbe più riuscito ad assicurarsi negli eventi giubilari successivi”.
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