La sorpresa di Lojudice: resto un prete che cerca risposte al disagio che incontra
Benedetta Capelli e Alessandro Di Bussolo – Città del Vaticano
Da parroco di una borgata romana, Tor Bella Monaca, poi da vescovo ausiliare della zona sud di Roma e di Ostia, infine da arcivescovo di Siena, poco più di un anno fa, monsignor Augusto Paolo Lojudice, 56 anni, romano di Torre Maura, ha sempre avuto il coraggio di mettersi dalla parte degli ultimi, in modo discreto ma anche molto concreto. Le famiglie in difficoltà, le ragazze schiave della prostituzione, i rom difesi dallo sgombero dei loro campi di periferia e oggi il disagio meno lacerante, ma sempre presente, di Siena, che promette di non lasciare, anche dopo aver ricevuto la berretta cardinalizia da Papa Francesco, il 28 novembre. Anzi rilancia, assicurando una prossima visita del Pontefice, estimatore di santa Caterina, nella città del Palio.
“Non ho cercato la marginalità, ma non l’ho evitata”
A Vatican News, monsignor Lojudice conferma che non si aspettava in alcun modo la nomina, anche dopo il colloquio con il Papa di qualche giorno fa, e che “abbiamo imparato che Francesco ha la capacità di stravolgere tutti i piani”, come ha fatto con lui domenica alle 12 e qualche minuto.
R. - Non mi ha sorpreso che lo facesse a sorpresa. Certamente mi ha sorpreso che lo facesse a me: assolutamente non potevo pensarci, anche perché io sono qui a Siena solo da un anno. Ma questo rientra nel suo modo di essere e di pensare: non ti toglie da una diocesi solo perché, almeno negli ultimi secoli, non è stata una sede cardinalizia. A lui questo non importa: per lui conta appunto che lui ti chiede una cosa, che si fida di te e che tu gli sia fedele. Nell’ultimo incontro, Papa Francesco mi ha detto che stima Santa Caterina da Siena come patrono d'Europa e come donna forte. E’ molto legato a questa figura e la ritiene una donna capace di parlare al nostro tempo e scherzando mi ha detto: “E ce ne aveva da dire anche ai cardinali e anche ai Papi”. Quello che ci ha detto in questi anni è che lui non ti mette mai la medaglia come per dire “quanto sei bravo”. No, ti dice: “Ok, adesso continua a sporcarti le mani come facevi”. Questo è un po' il suo stile.
“Sporcarsi le mani”: è una frase che si lega molto a lei, che a Roma è stato ribattezzato come “il prete dei Rom”…
R. – Mi fece ridere quella suora che mi chiamò, poco dopo la mia nomina a vescovo ausiliare, nel marzo 2015, e mi chiese “Lei è il vescovo dei Rom? “No guardi, sono il vescovo del popolo di Dio, innanzitutto” risposi. Io non ho chiesto di andare a Tor Bella Monaca a fare il parroco, dove feci una grande esperienza di marginalità e anche di fede, di Vangelo. Non ho chiesto di incontrare il popolo Rom, in quel famoso 6 maggio del 2007, quando per la prima volta entrai in un famosissimo campo nomadi romano, per una serie di motivi. Ho cercato di leggere quello che mi circondava e cerca di trovare insieme alle persone, delle risposte. Solo questo. Anche se una volta, un annetto e mezzo fa, il Papa mi disse: “Tu sei il vescovo più battagliero, a Roma!” “Ma che dice, Santo Padre”, replicai. ”Non ti preoccupare” mi tranquillizzò. Forse perché era il momento in cui era venuta fuori qualche cosa particolare, legata agli sgomberi, di un paio d'anni fa. Situazioni particolari che mi coinvolsero in prima persona, perché io mi ci trovai dentro, perché stavo lì, conoscevo quella gente, le persone coinvolte in queste occupazioni. La famosa occupazione di Santa Croce in Gerusalemme, e quelle situazioni particolarmente compromesse, difficili nelle quali però io mi ero trovato. Non dico per caso, questo no, ma che io non ho evitato, anche questo lo devo dire per verità. Però che non mi sono andato a cercare come se uno volesse fare una cosa strana. Sono le situazioni che la mia storia mi ha messo davanti: tanti disagi di tante famiglie italiane prima a Tor Bella Monaca, poi tutto il mondo dei Rom, che mi si è aperto negli anni in cui ero in seminario (dal 2005 al 2014 come direttore spirituale, n.d.r.). E tante altre situazioni, che credo chiunque incontri un po' nella vita, alle quali ho cercato di rispondere in un certo modo.
Come potrà portare queste esperienze nel servizio da cardinale al quale è stato chiamato?
R. – Penso e spero di continuare a servire la Chiesa come ho fatto fino ad ora e portare avanti quello che mi sarà chiesto ma soprattutto la realtà dove mi troverò perché quello che conta è essere incarnati. E’ chiaro che Siena è una realtà molto diversa da quella romana, anche come proporzioni. Non c'è quel disagio che purtroppo nella grande città si tocca con mano, dovunque tu passi, qui è diverso. Ma poi la povertà e le fragilità esistono dovunque, magari di natura diversa e quindi io cerco di leggerle e di dare delle risposte, cercando di risolvere i problemi. Ricordandoci sempre che il mondo l'ha già salvato il Signore, noi dobbiamo solo partecipare di questa salvezza. E’ un dato di fede che mi ripeto spesso.
Quando ha sentito il suo nome ha pensato ad una persona in particolare, ad un momento della sua vita, della sua vita di prete, ad esempio?
R. – No… L’ho sentito in seconda battuta, perché stavo facendo un'altra cosa, e non riuscivo ad essere attento all'elenco dei nomi, che quindi non ho percepito. Sinceramente non ho avuto tempo neanche di pensare a qualcosa d'altro, se non a questa nuova condizione, questa nuova responsabilità questo modo ancora diverso di essere, “un prete al servizio della Chiesa”. Come dissi anche quando diventai vescovo, insomma. Noi siamo innanzitutto preti che prestano un servizio diverso. In fondo, poi, da cardinali si ritorna in qualche modo non dico essere parroci, ma insomma ad essere titolari, diciamo così, di una chiesa di una parrocchia romana e questo un po' me lo sento nel sangue, perché è la mia città e tale resterà per sempre. Io glielo dissi al Papa quando mi fece vescovo: “Guardi che io non ho niente di particolare dal punto di vista dell’essere prete, sono uno molto normale. E lui mi ha detto: “Tu non ti preoccupare”… “Se lo dice lei – risposi – allora va bene”.
Guardando la nuova composizione del collegio cardinalizio, con questa attenzione di Papa Francesco per le Chiese del mondo più “dimenticate”, lei che è anche dentro a questa nuova Chiesa di Papa Francesco, che considerazione fa?
R. – E’ chiaro che lui pensa, vuole, desidera una Chiesa secondo il Vangelo. Quello che mi stupisce è pensare: “Ma non dovremmo essere tutti su questa linea”? Sembra che Papa Francesco dica una cosa strana, quando si pensa una cosa del genere. E invece questa dovrebbe essere l'attenzione, non solo dei vescovi e dei cardinali, ma anche di ogni credente, che la Chiesa sia rispondente al Vangelo. Però evidentemente non è così ovvio, così questo diventa un ennesimo segno anche rispetto alla Chiesa universale. Questo è il pensiero che lui porta dentro di sé della Chiesa dei poveri. “Non ti dimenticare dei poveri” è la famosa battuta che ripete spesso che gli fu fatta nel momento dell'elezione (dal cardinal Hummes, n.d.r. ) oppure le opere del Vangelo. Dico sempre che Papa Francesco, con tutto il rispetto, non inventa nulla, ma semplicemente riporta il Vangelo, con il suo stile personale, questo sì, ma non inventa niente. Tutto quello che già c'è ed è presente nel Vangelo e che il Papa cerca solo di metterle, con una forte evidenza, in atto.
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