Il ricordo di Don Peppe Diana, martire per la giustizia e la legalità
Francesca Sabatinelli – Città del Vaticano
Dal 19 marzo del 1994 sono trascorsi 27 anni, tutti anni di resistenza, di ricerca di libertà dalla criminalità. Sono stati anni di cammino, di semina, per liberare la terra campana, seguendo le parole di Don Peppe Diana: “Bisogna risalire sui tetti per riannunciare parole di vita”. Il sacerdote ucciso dai camorristi mentre si preparava per la Messa, parla ancora ad alta voce alla parte sana di Casal di Principe, ad una società che continua a sentirsi spinta dal coraggio di questo prete che, per il suo impegno civile, la sua denuncia e le sue critiche nei confronti della camorra, a 36 anni e nel giorno del suo onomastico, viene messo a tacere da cinque colpi che lo uccidono all’istante, mentre si trova nella sacrestia della chiesa di san Nicola di Bari, a Casal di Principe. Un omicidio che scuote l’Italia e che fa pronunciare forti parole di dolore da Giovanni Paolo II all’Angelus del 20 marzo del 1994, quando esprime la speranza che il “sacrificio” di don Diana possa produrre conversione, concordia, solidarietà e pace. Un amore, quello della Chiesa per questo prete di periferia, che viene sugellato dal bacio sulla stola di don Diana da parte di Papa Francesco, il 21 marzo 2014, quando nel corso della Veglia per ricordare le vittime delle mafie, nella chiesa di San Gregorio VII, a Roma, don Luigi Ciotti, fondatore dell’associazione Libera, fa indossare al Papa il paramento che don Peppe aveva poco prima di essere ucciso.
Un martirio dal quale è nato un popolo
A comandare, ieri come oggi, erano i casalesi, il clan che controllava tutto, traffici illegali e non. Dopo il sacrificio del sacerdote, col passare degli anni, al male della camorra ha iniziato ad opporsi un profondo senso di comunità e oggi, quelle terre, ancorché attraversate dal messaggio mafioso, non vengono più identificate solo come terre di camorra, ma come le terre di Don Peppe Diana. “Il 19 marzo è morto un prete, ma è nato un popolo”, disse monsignor Antonio Riboldi, vescovo di Acerra, celebrandone i funerali, parte di quel popolo si è ritrovata nel “Comitato don Peppe Diana”, associazione nata il 25 aprile del 2006 per non dimenticare il martirio del prete. “Dal Comitato don Peppe Diana al Terzo settore, da Libera ad Azione Cattolica – spiega Salvatore Cuoci, coordinatore del Comitato – tutti quelli che si impegnano in questo percorso, stanno trasformando le terre di camorra in terre di don Peppe Diana, sono terre di bellezza, di solidarietà e comunione, sono terre di sogno, che hanno sì visto versare il sangue degli innocenti, ma da quelle morti è nata e sta per nascere la vita, sono nati degli alberi e noi i frutti li stiamo raccogliendo anche in questo periodo”.
La società civile, sentinella del territorio
Gli anni novanta furono segnati da una lunga scia di sangue, all’inizio del decennio si scatenò una faida tra clan per il predominio della zona, che vide vittorioso il gruppo di Francesco Schiavone, conosciuto dalla cronaca come Sandokan, ora in carcere dove sconta l’ergastolo. Il controllo del territorio, tuttavia, non è mai venuto meno: estorsioni, usura, traffico di stupefacenti, gioco e scommesse illegali, garantiscono e fortificano il potere economico dei criminali, che si rigenerano grazie alle nuove leve, infiltrandosi nel tessuto sociale e produttivo, aiutati dalle connivenze delle tante amministrazioni comunali che, regolarmente, vengono sciolte per infiltrazione mafiosa. “Guai a pensare che si abbia vinto, guai a pensare che abbiamo tutto alle spalle, guai a pensare che certi fenomeni non ci appartengano – spiega ancora Cuoci – il fenomeno dilagante della corruzione, assieme al fenomeno dell’inquinamento dell’economia legale con quella illegale e alle azioni quotidiane del racket, tutto questo ci deve tenere ben desti. Ci sentiamo sentinelle di questo territorio, ma abbiamo bisogno ancora di camminare insieme, ancora abbiamo bisogno di fare tanto”.
Il messaggio di don Diana vive nei giovani
La parte più vulnerabile della società continua, oggi come nel passato, ad essere rappresentata dai giovani, gli adolescenti, la manovalanza della camorra. La Casa don Diana, Centro polivalente per la promozione sociale dedicato a giovani e adulti, nata dall’impegno del Comitato, prende in carico ragazzi con alle spalle reati, ma non solo, attira anche molti giovani che chiedono di poter svolgere lì volontariato o il servizio civile, il che, spiega Cuoci, “significa che il lavoro comincia veramente a dare i frutti verso quei ragazzi che non avevano più la speranza e ai quali noi la stiamo ridando”. I ragazzi di Casal di Principe non solo non hanno mai conosciuto don Diana, non hanno neanche mai attraversato quegli anni così tragici, vissuti invece dai più anziani, come Salvatore che in prima persona ha provato “quando si uccideva per le strade, quando si moriva per un sì e per un no”. Questi giovani, oggi, aggiunge Cuoci, sono “l’essenza del risultato della morte di don Peppe Diana, perché, pur non avendolo conosciuto, a scuola fanno disegni, scrivono poesie e temi, in modo così appassionato, così bello, così vero che si immedesimano in don Diana, e questo è il messaggio più bello di un sacerdote che, pur non essendoci da 27 anni, continua a seminare, continua a farci interrogare. Questi ragazzi sono il presente di questi territori, è su loro che dobbiamo puntare, su loro e sulla loro freschezza”.
Sempre acceso lo stimolo di don Peppe
Oggi la cerimonia per don Diana, a Casal di Principe, sarà condizionata, come tutto ormai da un anno, dalla pandemia, ciò non impedirà però di ricordare ai pochi in presenza e ai tanti collegati via web questo coraggioso sacerdote e, con lui, un’altra importante figura tra i ricostruttori delle terre dopo gli anni di dittatura camorrista, quella di Valerio Taglione, da giovane scout sotto la guida di don Peppe, a coordinatore del Comitato, morto lo scorso anno a maggio. Sono due ora le speranze del Comitato, la prima è che l’Italia riconosca quale testimone di giustizia Augusto Di Meo, presente all’assassinio di don Diana e che denunciò subito l’omicidio, riconoscendo il killer. Di Meo, in tutti questi anni, si è ritrovato da solo a fronteggiare ritorsioni, intimidazioni e paura, perché la legge che inquadra la figura del testimone di giustizia è del 2001, successiva quindi all’omicidio di don Diana. E poi la seconda speranza: quella di vedere la beatificazione di don Diana, ma non per farne un santino, conclude Cuoci, “perché a noi piace il Peppe che ci inquieta, il Peppe che ci morde, il Peppe che non ci fa stare tranquilli, che ci stimola a fare sempre di più, questo è il Peppe che ci interessa, il Peppe vivo, quello che sentiamo accanto a noi”.
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