Palermo ricorda Biagio Conte, fratello degli ultimi e voce profetica di questo tempo
Alessandro Di Bussolo – Città del Vaticano
A fratel Biagio è stato dato “il triplice dono di vivere da povero, di vivere con i poveri e di vivere per i poveri”. Così l’arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice ricordava “l’uomo dal saio verde” nell’omelia del suo funerale, il 17 gennaio di un anno fa, aggiungendo che questo dono, il missionario laico Biagio Conte ha voluto viverlo soprattutto nella città siciliana che gli ha dato i natali, e dove “è ritornato dopo aver deciso, come Francesco d’Assisi, di abbandonare la casa di suo padre e ogni possesso terreno”. Questa sera, alle 17.30, ad un anno dalla sua “nascita in cielo” - come tutti nella Missione di Speranza e Carità definiscono quel 12 gennaio - fratel Biagio viene ricordato in una concelebrazione eucaristica nella chiesa “Casa di preghiera per tutti i popoli” di via Decollati, dove riposano le sue spoglie mortali.
La Messa nella “Casa di preghiera per tutti i popoli”
In questa “cattedrale dei poveri”, cuore della cittadella dell’accoglienza che è casa per centinaia di ultimi di Palermo, uno dei tanti miracoli della fede e della tenacia di fratel Biagio, di don Pino Vitrano e dei volontari della Missione, perché ricavata da un capannone fatiscente di un ex caserma dell’Aeronautica, concelebrano l’arcivescovo Lorefice e gli arcivescovi e vescovi siciliani. Alla destra dell’altare, la tomba di Biagio, piegato in pochi mesi da un tumore al colon poco prima dei 60 anni, malattia affrontata con la forza, la fede e la speranza con cui ha sempre vissuto. Sopra la semplice lastra di marmo verde, con un ovale a mosaico che riproduce il logo della Missione, la grande foto del suo volto sorridente e le sue mani aperte. Un “folle” in Cristo che è “gloria del laicato e di tutto l’amatissimo popolo palermitano” per il cardinale Salvatore De Giorgi, arcivescovo emerito, che lo ha accostato al beato don Pino Puglisi, “gloria del presbiterio palermitano”.
Un “piccolo servo inutile” dagli occhi azzurri illuminati dalla fede
Biagio Conte ha fondato opere di carità, è stato capace di smuovere le coscienze, ha pregato, digiunato e attraversato in pellegrinaggio l’Italia e l’Europa intera, per sensibilizzare i cuori dei cittadini e delle istituzioni all’impegno per la pace, all’attenzione verso i più fragili, alla convivenza fra i popoli. Le sue battaglie non violente hanno lasciato un segno, un’eredità per la Chiesa e per la società. Oggi, quando a Palermo si dice “Biagio Conte” non si indica solo quel “piccolo servo inutile” dagli occhi azzurri illuminati dalla fede, ma anche un luogo di accoglienza per gli scartati della terra, un posto, più posti in tutta la Sicilia, luoghi abbandonati per decenni e oggi recuperati al servizio del territorio, in cui la speranza non muore, perché per tutti “c’è una seconda possibilità”, come amava dire fratel Biagio.
Quattro giorni di iniziative per ricordare fratel Biagio
Il missionario laico è stato ricordato, in questi giorni, a Godrano, il 10 gennaio, 40 chilometri a sud di Palermo, dove la Missione ha aperto un centro di accoglienza chiamato “Valle Porta della Speranza”, ai margini del bosco della Ficuzza, con l’inaugurazione di una cappella dedicata alla Madonna di Loreto - una celebrazione presieduta da don Pino Vitrano, “fratello” di fratel Biagio che con lui, nel 1993, ha fondato la Missione - e la piantumazione di alberi. L’11 gennaio, con una conferenza su “Carisma e spiritualità della Missione di Speranza e Carità” tenuta da don Giuseppe Buccellato e con una veglia, nella chiesa di via Decollati. E il 9 nella cattedrale di Palermo con al presentazione del libro “Ti posso chiamare fratello?”, delle Edizioni San Paolo, storia ed eredità spirituale di fratel Biagio, scritto dai giornalisti palermitani Alessandra Turrisi e Roberto Puglisi.
Nel libro “Ti posso chiamare fratello?” la prefazione di Lorefice
Con gli autori, anche l’arcivescovo Lorefice, che firma la prefazione, nella quale ricorda che al suo arrivo a Palermo come vescovo, nell’ottobre 2015, il suo sguardo e quello di fratel Biagio “si sono immediatamente intercettati” e si sono detti: “Ci impegneremo insieme per una Chiesa povera e dei poveri, aiuteremo Papa Francesco a realizzare il volto di una Chiesa sempre più somigliante al suo Maestro e Signore, al suo Sposo, il Cristo, il Messia povero e dei poveri. Saremo missionari di carità, di speranza e di pace; di dialogo e di incontro tra culture e fedi diverse, costruttori di una città accogliente e fraterna”.
Don Pino: lo sento vicino, cammina ancora con noi
Nel volume, anche la testimonianza di don Pino Vitrano, 68 anni e una bella barba bianca, già salesiano, che conquistato dalla fede del ventinovenne Biagio sotto i portici della stazione di Palermo, non lo ha più lasciato, e il 5 maggio del 2023, a trent’anni dalla vestizione del missionario, ha indossato anche lui il saio verde oliva, come quello cucito dalla madre del suo “fratello”. Gli abbiamo chiesto di parlarci di questo anno di vita della Missione.
Ad un anno dalla nascita in cielo di fratel Biagio, come ha vissuto la Missione di Speranza e Carità questi primi mesi di presenza diversa del suo fondatore e ispiratore?
Sicuramente all'inizio c'è stato un piccolo smarrimento, perché la figura di fratello Biagio è una figura di grande rilevanza e anche molto carismatica, e quindi, inizialmente, c'è stato anche questo sentirsi quasi privi della presenza fondante di tutto. Poi, se guardiamo tutto nell'ottica della fede, il Signore ha iniziato con lui, ma la missione continua e deve continuare sicuramente, perché la prima cosa della quale bisogna prendere coscienza è che è opera di Dio che si serve di uomini, si serve di ciascuno di noi per poter portare avanti tutto. Se il Signore, poi, ha voluto che tanti anni fa ci incontrassimo con fratello Biagio e che ora lui ha lasciato me e noi, non ci lascia effettivamente, perché da un altro punto di vista, da un'ottica di una fede che ce lo fa vedere presente, continua a camminare con noi. Il Signore ha voluto che la Missione partisse con lui e che lui fosse veramente il motore prorompente del cammino. Ma a lui poi si sono affiancati, insieme a me, le sorelle, i volontari e tanti e tanti che hanno contribuito a far sì che questo motore portasse avanti opere che non sono solamente di persone, di uomini, ma è la presenza di Dio che si è servito di ognuno di noi.
Nel libro “Ti posso chiamare fratello?” lei dice di sentire ancora vicino fratello Biagio. C'è stato un momento in quest'anno in cui l'ha sentito particolarmente vicino?
Sicuramente non ho avuto mai lo smarrimento di sentirmi abbandonato da lui, quasi che lui si fosse autoescluso da questo mondo o perché la morte, la malattia, l'abbiano escluso. Ma così come ha partecipato anche con la malattia, partecipa anche oltre la morte a quello che è il cammino della missione, perché io lo avverto vicino. A parte che poi continuamente, da tanti fratelli, sento proprio che lui si fa presente anche a loro, da tanti sogni che mi raccontano, da tanti momenti che vivono come se lui fosse presente fisicamente.
Quando ci siamo sentiti, un anno fa, prima del funerale, lei aveva detto che sperava che i volontari della Missione “avessero il coraggio di continuare sulla sua scia con una speranza ancora più grande, una carità ancora più profonda”. È stato così in questo anno?
Tra i volontari c’è stata una flessione, dovuta a chi ha avuto un ripensamento, perché forse guardava solo ad una figura e non guardava all'opera che lui aveva movimentato e che sarebbe poi maturata e continuata. C'è chi sicuramente ha avuto il coraggio di scommettersi ancor di più in questa avventura. Come c'è chi, come capita in tutte le famiglie, dice: “Ma io adesso non me la sento di continuare perché manca la figura o del padre o della madre. In una famiglia allora c'è una flessione, anche uno scoraggiamento psicologico. Ma noi non abbiamo costituito una missione di sentimentalismi, abbiamo costruito una missione di fede. Quindi nella fede chi è forte ancor di più la rafforza anche attraverso tutte le tempeste che arrivano e anche tutte le situazioni che possono verificarsi. Chi, invece, questa fede ce l'ha traballante, fin dall'inizio poco consistente, è chiaro che a volte poi si spegne facilmente questa fede.
Sempre nel libro lei individua molti segni della Provvidenza che hanno accompagnato il cammino della missione da 30 anni a questa parte e che testimoniano come questo cammino è stato sempre guidato dal Signore. Ci sono stati anche quest’anno, questi segni della Provvidenza?
Sì, perché fratello Biagio in questo era veramente encomiabile, debbo dire, perché aveva la dimensione vera che è il Signore che ci soccorre ogni giorno, servendosi chiaramente oggi di uno, domani di un altro. Ed è proprio questa la cosa bella: a volte possono essere anche le istituzioni. E lui credeva che il Signore era al centro di tutto questo progetto e quindi non ci avrebbe mai abbandonato. Ogni volta, dovremmo farci un esame di coscienza se siamo noi ad abbandonare Lui, ma Lui non ci abbandona. Quando la dedizione è totalmente per i poveri, allora nei poveri c'è Lui, il Signore. Ma se noi ci distanziamo dai poveri o cominciamo ad essere un po’ troppo formali con loro, allora il Signore non vuole l'inganno. Però in quel caso non è Lui che non ci vuole ancora assistere o accompagnare, ma siamo noi che abbiamo travisato quello che è stato l'inizio e il suo messaggio di verità, di amore e di provvidenza, che sempre ha avuto.
Ancora nella sua testimonianza riportata in “Ti posso chiamare fratello?” mi ha colpito quando lei dice che Biagio, per chiamare “fratello” il povero ha camminato con le sue scarpe, “con i suoi piedi nudi”, meravigliando molti con il suo “dormire a terra, tra i cartoni, accanto a fratelli in difficoltà”. Questo è un bel ricordo che ha di lui?
Sì, sì. Ma anche questa espressione “Ti posso chiamare fratello?” non è uno slogan nella bocca di fratello Biagio, ma è proprio la condivisione piena di una vita con loro. Ci sono parole molto belle, come “ogni uomo è mio fratello” oppure anche l'espressione di Papa Francesco, molto bella, dell’enciclica Fratelli tutti, “siamo tutti fratelli”. Ma in Biagio la domanda “Ti posso chiamare fratello?” è proprio la forma concreta, pratica, di condivisione piena di una vita con loro, con gli ultimi.
Dopo questo anno di assestamento, c’è nella Missione l’idea, il progetto, di guardare anche fuori dalla Sicilia?
Sicuramente la Missione non è solo a Palermo. Fratello Biagio voleva partire per l'Africa, voleva partire per l'Asia. Ha chiesto proprio al Signore, davanti alla tomba di San Francesco, quando aveva finito il primo cammino ad Assisi, “Signore, io sono tuo, la mia vita è nelle tue mani. Mandami dove vuoi, io andrò”. E passò da Palermo per non rimanere a Palermo, ma per proiettarsi verso mondi diversi. Ma il Signore, poi, invece l'ha lasciato qui a Palermo, lì dov'era, si può dire, scappato, perché non accettava questa città. Ora, chissà che da questa città non si parta per tutte le altre città. Nello statuto dell'associazione pubblica di fedeli che abbiamo costituito, come realtà anche ecclesiale, si dice proprio che la Missione è destinata a proiettarsi, poi, nelle grandi metropoli, dove spesso ci sono gli emarginati e tutti gli abbandonati. Per cui, chissà cosa il Signore ha progettato per tutta la nostra missione. Per ora siamo sparsi in varie realtà della Sicilia, ma chissà che tutto questo non possa verificarsi anche in altre Nazioni, in altre realtà.
Turrisi: un mistico che ha cambiato il mio modo di guardare gli altri
Delle battaglie non violente di fratel Biagio e della sua eredità per la Chiesa e la società non solo siciliane, parliamo con la giornalista Alessandra Turrisi, coautrice del volume “Ti posso chiamare fratello?”, che oggi lavora nell’ufficio stampa della Regione Siciliana, dopo venticinque anni di impegno nella carta stampata, da Avvenire al Giornale di Sicilia. Alessandra ha incontrato per la prima volta il fondatore della Missione di Speranza e Carità a metà degli anni '90, e spiega che con quel suo sguardo di un azzurro “profondissimo”, Biagio ha cambiato il suo modo di guardare la realtà, aprendolo all’attenzione nei confronti dell’altro.
Come descriveresti fratel Biagio a chi non conosce la sua storia?
Fratel Biagio Conte era un missionario laico, un figlio di Palermo, perché veniva da una famiglia come tante altre, di lavoratori, benestante, che ha scelto di lasciare tutto per seguire Cristo negli ultimi, nei poveri, in coloro che avevano più bisogno di aiuto. Era un uomo che sapeva vedere dove gli altri non vedevano o non volevano vedere. Ha saputo cogliere il vero bisogno dell'uomo di oggi, che è quello di sentirsi amato, di sentirsi valorizzato, dicendo che ciascuno ha una seconda possibilità, anche coloro che sbagliano o che si trovano in grave difficoltà, che cadono nella disperazione. E possiamo dire che aveva una vocazione profetica, in questo senso.
Lui e la sua “Missione di speranza e carità” hanno davvero cambiato Palermo e il suo modo di vedere i poveri?
Secondo me sì, perché la Missione è diventata un luogo di accoglienza di chi era proprio senza nulla. I senza dimora, i migranti che non avevano neanche un letto o un tetto, gli alcolisti che vivevano per le strade, le ragazze madri che si trovavano e che si trovano in difficoltà. Ma anche un punto di riferimento per tante famiglie in difficoltà che in città sapevano sempre di poter bussare ad una porta che si sarebbe aperta, per una risposta, per un sacchetto di spesa, per una mano sulla spalla, per una parola di incoraggiamento. E dunque Palermo ha cambiato il modo di vedere i poveri, prendendosene in qualche modo carico. Perché, tra l'altro, fratel Biagio per tutta la vita ha chiamato in causa la responsabilità di ogni istituzione, ma anche di ogni cittadino, di ogni appartenente alle diverse confessioni religiose. I suoi appelli erano rivolti sempre a tutti, perché ciascuno poteva fare la propria parte.
Ecco, i suoi appelli, le sue battaglie nonviolente, i suoi digiuni, hanno lasciato un segno, un'eredità che non muore con lui, secondo te?
Sì, fratel Biagio ha utilizzato questi strumenti della nonviolenza, che sono appunto il digiuno, il privarsi di tutto e anche il pellegrinaggio, il camminare a lungo sulle strade di Palermo, della Sicilia, delle regioni italiane, ma anche dell'Europa, fino addirittura ad arrivare in Marocco, come segnali forti di presenza di Cristo sulle strade del mondo. E questi segni compiuti da un uomo che aveva lasciato davvero tutto, si era completamente liberato da ogni ricchezza materiale, erano, in qualche modo, uno scuotimento per le coscienze di tutte le persone che si imbattevano in lui. E grazie a questi strumenti è riuscito ad ottenere per i più poveri dei luoghi che sono stati salvati dall'abbandono e sono diventati luoghi di accoglienza meravigliosa per i più bisognosi.
Preparando questo libro con il collega Roberto Puglisi, cosa hai scoperto in più, e di nuovo, di Fratel Biagio?
Ho scoperto che ha lasciato un segno in tutti coloro che lo hanno incontrato, che lo hanno incrociato attraverso le testimonianze che abbiamo raccolto, sia con interviste sia con lettere che sono arrivate dopo la morte di fratel Biagio, abbiamo scoperto che tutte le persone che si sono sentite toccate da lui, in qualche modo hanno cambiato il loro modo di vedere la vita, la sofferenza e le prove. Biagio era un uomo capace di cambiare l'interiorità delle persone avvicinandole alla Parola di Cristo.
Qual è un tuo ricordo personale, un incontro con Lui, una cosa che ti ha detto che ti è rimasta nel cuore?
Io ho incontrato fratel Biagio a metà degli anni ‘90, quando aveva da pochissimo cominciato la sua missione a Palermo ero una giovane studentessa universitaria, che già scriveva per le riviste palermitane. L’incontro con i suoi occhi azzurri profondissimi mi ha cambiato nel modo di guardare la realtà che mi circonda, cercando di avere sempre più attenzione nei confronti dell'altro. Lui aveva una capacità unica di dire le cose, di farti sentire qualcuno nel senso più bello del termine, cioè faceva sentire l'altro importante. Lui, tutte le volte che mi incontrava, aveva sempre una parola di gratitudine per me, per il lavoro che svolgevo. Guardava i giornalisti, che spesso sono visti anche con un poco di preoccupazione dall'interlocutore, perché magari considerati come degli impiccioni, sempre con benevolenza e valorizzando proprio il nostro ruolo nella società.
Concludete il libro dicendo che fratel Biagio è un rivoluzionario, perché la sua non è stata solo un'opera assistenziale, ma è riuscito anche a dare un autentico significato alla povertà, come libertà interiore dalle cose…
Biagio non era un assistente sociale. Chi l'ha visto come colui che dava i sacchetti della spesa o pagava le bollette alle persone, non ha capito nulla della grandezza spirituale di quest'uomo, che era un mistico. Lottava contro la miseria e contro la povertà per togliere dalla miseria, dalla povertà le persone, scegliendo la povertà, cioè scegliendo la libertà dalle cose materiali e dormendo per terra su un cartone, coprendosi con i cartoni e rifugiandosi nelle grotte in mezzo alla natura, per poter riflettere, pregare, riconciliarsi col creato. Ecco, era un uomo che ha fatto della radicalità evangelica il suo stile di vita.
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