Il rabbino David Meyer: “Il 7 ottobre ha rivelato la grande solitudine degli ebrei”
Olivier Bonnel – Città del Vaticano
Una delle ultime volte che è stato a Roma il rabbino David Meyer era alla Pontificia Università Gregoriana, dove insegna storia del pensiero ebraico contemporaneo. Un incontro che si è tenuto pochi giorni dopo gli attacchi di Hamas al sud di Israele che hanno messo nella paura un intero Paese. Un anno dopo, nel giorno in cui Israele commemora le sue vittime e la guerra continua ad allargarsi nella regione, il rabbino, tra i rappresentanti del movimento ebraico liberale in Francia e autore di numerose opere, torna su ciò che è cambiato dal 7 ottobre 2023, sull’aumento dell’antisemitismo in molti Paesi occidentali, ma anche sulla “solitudine” degli ebrei di fronte a un oceano di violenza e sui tentativi di individuare strade per guardare al futuro con speranza.
Cosa ha rappresentato il 7 ottobre per gli ebrei?
Per la stragrande maggioranza degli ebrei, siano essi israeliani o meno, penso che si abbia la sensazione che, dopo il 7 ottobre, il mondo sia cambiato. Credo che ciò che è cambiato è innanzitutto la percezione che la sicurezza che pensavamo che lo Stato di Israele offrisse a sé stesso e all'ebraismo, ebbene, quella sicurezza, è andata in frantumi. Per questo abbiamo parlato di pogrom, perché ha rimandato gli ebrei a una realtà del passato che pensavamo fosse abolita da qualche parte dalla storia e dalla creazione dello Stato di Israele. Da questo punto di vista c’è stato davvero un trauma profondissimo per gli eventi del 7 ottobre, e ovviamente da quello che è emerso dopo. Ciò che è accaduto anche, forse più in generale per il popolo ebraico, è la sensazione di un risveglio dell’antisemitismo spaventoso in tutti i Paesi in cui ci troviamo. È davvero estremamente difficile da comprendere, anche se, forse, l’antisemitismo non deve essere compreso. Fa parte di ciò che le società umane hanno sempre vissuto per così tanto tempo e ne abbiamo pagato il prezzo per secoli. In qualche modo pensiamo che, alla fine, nulla sia cambiato. Anche se presumibilmente siamo “accettati” nei Paesi in cui ci troviamo. La realtà è che ci sentiamo estremamente soli ed estremamente odiati. Proviamo nei nostri confronti un odio che sfida ogni razionalità, assolutamente incomprensibile e sorprendente. Credo che, in quest’ottica, ci sia anche un cambiamento profondo avvenuto per tanti tanti ebrei nel mondo.
Molti ebrei affermano che da un anno è stato chiesto loro conto delle politiche perseguite da Israele e dal premier Benjamin Netanyahu. Un fenomeno che non è nuovo, ma che è diventato più forte, come contrastarlo?
Il problema è che, in effetti, all’ebraismo viene chiesto di rendere conto delle politiche dello Stato di Israele. Ciò che dobbiamo capire - ed è molto difficile da spiegare - è la natura di questo legame tra l’ebraismo e lo Stato d’Israele. Perché questo non vuol dire che tutti gli ebrei sostengano sempre ogni politica di Israele, non è mai stato così e non può essere così. Allo stesso tempo, non può esserci nemmeno una disconnessione tra ebraismo e Stato di Israele. Il popolo ebraico non è solo una religione, non è solo l’ebraismo, è anche una nazione, un’etnia, una storia. In qualche modo, non possiamo separare i due. La difficoltà che abbiamo è tradurre in qualche modo questo sentimento e cercare di farlo capire a un pubblico che non ha ragioni particolari per conoscere questo argomento, ma che dovrebbe capire che quando Israele viene attaccato, è l’ebraismo ad essere attaccato. Quando gli ebrei vengono attaccati, anche Israele viene attaccato. Ciò non significa che l’uno sia l’assoluta e totale uguaglianza dell’altro, ma semplicemente che il legame tra i due è indissolubile, esistenziale. Ecco perché il popolo ebraico sente così profondamente la crisi che ci colpisce oggi.
Per comprendere meglio questa realtà, questo legame incrollabile di cui parla, la chiave è innanzitutto lottare contro l’ignoranza?
Lottare contro l’ignoranza è comunque sempre un’ottima cosa. Qualsiasi soluzione a qualsiasi conflitto implica necessariamente una riduzione dell’ignoranza e un aumento della comprensione, della raffinatezza, della capacità di pensare. Ma c’è un enorme sgomento nella comunità ebraica nel vedere che siamo una tale minoranza… Abbiamo visto orde di manifestazioni nei Paesi occidentali, in Inghilterra, in tutti i campus, nelle università, negli Stati Uniti, in Francia, quasi ovunque. In qualche modo, non abbiamo gli strumenti per difenderci. L'unica cosa che possiamo fare è dire: continuiamo ad esistere, continuiamo ad esistere nonostante tutto.
Non so come faremo per fermare l’antisemitismo che da qualche parte, nel corso dei secoli, ha sempre trovato un nuovo modo per rinascere e trovare un nuovo volto. Non ho più speranza che possiamo sconfiggere l’antisemitismo in una forma o nell’altra. L’unica cosa che cerchiamo di fare è continuare a sopravvivere. Ed è già difficile. Al di là di ciò, ovviamente, continuare nell'insegnamento resta una cosa importante, anzi necessaria. Se da qualche parte c’è una luce di speranza, essa arriva attraverso un affinamento del pensiero, attraverso la creazione di un pensiero più critico, in modo che le persone pensino con la propria testa e non si lascino guidare da slogan semplificatori. Penso che una delle cose che ci dà più fastidio è che non chiediamo alle persone di sostenerci. Ma ciò che avremmo sperato è che nelle società occidentali, che dovrebbero essere società in cui si è sviluppato il pensiero critico, si potesse trovare un modo per non riassumere e semplificare il problema in cui si trova lo Stato di Israele mettendo i buoni in uno lato e i cattivi dall'altro. Anche quello, non possiamo vederlo.
In che modo i testi dell’ebraismo ti aiutano a superare questi tempi bui?
Ammetto che a livello molto personale, il rifugio che trovo nello studio è una vera e propria ancora di salvezza, in questi giorni di commemorazione in cui non oso nemmeno più guardare il telegiornale. Di fronte alla tentazione della stanchezza e dell’abbandono c’è sempre la capacità di studiare e ritornare sui libri. Più universalmente, per andare oltre la mia esperienza personale, ciò che mi colpisce sempre nei testi della tradizione rabbinica è che sono sempre stati centrati sulla vita reale. Non sono testi dogmatici che vivono in un sogno, né testi che vivono in un'ideologia che loro stessi si sarebbero formati. Si tratta, al contrario, di testi che ingaggiano una sorta di corpo a corpo con la realtà dell'esperienza del popolo ebraico nei vari momenti della sua storia. Penso che possa esserci un messaggio anche per altre tradizioni religiose che potrebbero avere una certa tendenza a spiritualizzare la storia.
Qual è oggi, secondo lei, la chiave affinché la pace ritorni e venga costruita soprattutto in Medio Oriente?
Trovare la pace, cioè cercare una soluzione intelligente che risponda a ciò che le persone ragionevoli potrebbero pensare riguardo al benessere di entrambi i popoli, è una soluzione estremamente semplice. Molte persone hanno trovato queste soluzioni, idee che hanno proliferato negli ultimi 30 anni. Ciò che è complicato – qui sta la chiave del problema della pace – è come convincere le popolazioni che non vogliono più essere convinte o che non hanno mai voluto essere convinte. Come possiamo convincere le popolazioni che, nel corso dei decenni, si sono radicalizzate a vicenda e hanno perso il senso della propria educazione e del proprio pensiero critico? Credo che dobbiamo andare oltre il quadro in cui abbiamo sempre pensato di immaginare la pace, abbiamo bisogno di un pensiero molto più originale e audace per cercare di risolvere questa equazione.
Nell’ultimo anno ci sono stati segnali di affetto da parte di altre religioni nei confronti degli ebrei. Qual è la natura di questi rapporti, a un anno dalle stragi del 7 ottobre? È cambiato il dialogo interreligioso?
Per fortuna il dialogo resta, ma non con tutti. Nel corso di quest'anno, la comunità ebraica è rimasta molto delusa da alcune posizioni assunte da diverse religioni e, allo stesso tempo, è stata molto colpita da altri tipi di posizioni. Ad esempio, la dichiarazione dei vescovi di Francia di pochi giorni fa, per le commemorazioni del 7 ottobre, che ha toccato profondamente il cuore degli ebrei. Ci sono dialoghi che rimangono. Il dialogo e in particolare quello giudaico-cristiano hanno dimostrato che in 60 anni le cose, anche quelle più radicate nella percezione umana, potrebbero cambiare dopo quasi 2000 anni di storia feroce. Penso che la realtà di quanto è stato realizzato tra il mondo cattolico e il popolo ebraico sia un indicatore della capacità di superare ciò che sembrava impossibile. Ciò richiede coraggio e persone visionarie. Bisogna semplicemente ascoltarsi. Se questo dialogo fa emergere persone lungimiranti e audaci, penso che da qualche parte ci sia un messaggio di speranza che è come una piccola luce nella notte. E in questi tempi bui, un po’ di luce è già tanto.
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