Notre-Dame, i mille volti di un simbolo
di Adrien Candriard
A malincuore oso dirlo, a poche ore dalla riapertura della cattedrale dopo i lavori che hanno fatto seguito al devastante incendio del 2019, ma, come cristiano nato e cresciuto a Parigi, non sono mai stato molto legato a Notre-Dame. Certo, era la cattedrale, ma io ho soprattutto il ricordo di un luogo cupo, quasi sempre invaso da turisti rumorosi, un luogo tanto poco propizio alla preghiera quanto un centro commerciale o la Cappella Sistina nelle ore di punta. E quando, sul finire dell’adolescenza, ebbi la gioia di assistere all’ordinazione di un amico, che diventava sacerdote della diocesi di Parigi, noi, i fedeli, dovemmo restare fuori, sul sagrato: l’interno della cattedrale, troppo piccola, era riservato al solo clero. Mi rivedo seduto, mentre contemplo la facciata, e mi dico che, in effetti, questa cattedrale non era davvero fatta per i cristiani di Parigi.
Come parigino, tuttavia, e come francese, sono sempre stato orgoglioso di Notre-Dame. Figlio del Quartiere Latino, ho sempre amato scorgere la sua sagoma, le sue torri, l’abside, la guglia; ho dato appuntamento una ventina di volte sul suo sagrato, ho fatto ammirare agli amici le sculture della facciata nelle belle notti d’estate. Ero un conoscitore di lunga data del romanzo di Victor Hugo, della conversione di Paul Claudel. Avevo familiarità con l’incoronazione di Napoleone o con il Te Deum cantato in occasione della liberazione di Parigi nel 1944. Notre-Dame faceva parte della mia cultura, del mio passato, e ne ero fiero.
Quando, cinque anni fa, in un’oasi egiziana, ho ricevuto la telefonata di mio padre, che vive a Parigi a due passi da Notre-Dame, e che mi descriveva in lacrime l’avanzare dell’incendio — lui che non piange mai, come i padri della sua generazione —, lui che è pure un anticlericale dichiarato, ho sentito che qualcosa crollava, nella mia città, nel mio Paese, e dentro di me.
Sembrerà indubbiamente strana questa ginnastica, che mi fa passare da un’identità a un’altra quando penso al mio rapporto con la cattedrale di Parigi. Credo però che questa dualità dica qualcosa della situazione di molte chiese in Francia.
Le migliaia di chiese presenti in ogni villaggio del Paese, così come le splendide cattedrali che dominano le grandi città, sono innanzitutto luoghi di culto, dove si prega, dove si celebrano i sacramenti, dove da secoli si annuncia la salvezza in Gesù Cristo. È per questo che questi edifici sono stati costruiti, ed è bello che abbiano conservato questa funzione nel corso dei secoli, nonostante le vicissitudini della storia e malgrado la secolarizzazione. Ma le chiese di Francia non sono solo luoghi di culto per i cattolici: sono anche luoghi della memoria di tutti. In molti villaggi, costituiscono l’unico monumento storico, l’unico testimone del passato; ed è lì che, da secoli, le generazioni sono state battezzate, si sono sposate, sono state sepolte. Questa memoria collettiva, questa memoria di tutti, non è ovviamente proprietà esclusiva delle comunità cattoliche. Tuttavia, non per questo si tratta di trasformarle in musei. La legge francese cerca di rendere conto di questa doppia funzione delle chiese: dal 1905, le chiese sono di proprietà pubblica (le chiese appartengono ai comuni e le cattedrali allo Stato), ma sono assegnate al culto cattolico. Questo non è sempre semplice: queste due funzioni a volte entrano in conflitto o in competizione.
A Notre-Dame, la rivalità di utilizzo — tra religione e potere politico — è antichissima, ma assume da qualche decennio un nuovo significato: la cattedrale appartiene ai turisti o ai fedeli? In altre parole, la cattedrale di una grande diocesi può essere al contempo uno dei siti più visitati al mondo? Ci sono inevitabilmente conflitti di spazio e orari tra questi utenti, spesso molto diversi. Si potrebbe sognare, tuttavia, che il confine non sia così netto tra visitatori e pellegrini: non si può forse entrare in una chiesa da turista ed uscirne da credente? Il luogo stesso non spinge i suoi visitatori ad aprirsi alla grazia, all’ascolto della Buona Novella? Questo desiderio legittimo si scontra però con le brutali realtà del turismo di massa (si prevede che, dopo la sua riapertura, la cattedrale riceverà circa quindici milioni di visitatori in un anno, diventando il monumento più visitato al mondo), con i suoi imperativi spietati: rumore, flussi di circolazione, norme di sicurezza, nulla che favorisca la contemplazione o l’esperienza mistica.
L’emozione provata in Francia e nel mondo intero quando le fiamme attaccarono Notre-Dame, l’entusiasmo di centinaia di migliaia di donatori che volevano contribuire alla ricostruzione, la passione delle discussioni che hanno accompagnato i lavori hanno tuttavia mostrato che, per tutti, cristiani o meno, credenti o meno, non si trattava di un semplice museo, per quanto eccezionale: si tratta di un po’ della vita spirituale del mondo che si svolge sotto queste volte gotiche.
È nostro dovere prendercene cura, senza mai trascurare la vocazione cristiana del luogo. Come onorare questa vocazione cristiana nel monumento più visitato del mondo? È la sfida di questa riapertura, una sfida che richiederà non meno creatività, immaginazione e lavoro della ricostruzione dell’edificio. Ma il manto di Maria non è forse abbastanza ampio da coprire e proteggere tutti i suoi figli?
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