Quei conventi che salvarono gli ebrei dalla Shoah
Paolo Ondarza – Città del Vaticano
Una porta aperta, un rifugio sicuro dove sfuggire alla morte. Rappresentarono questo gli oltre 220, fra conventi, chiese e case appartenenti a vari ordini religiosi che nel pieno della persecuzione nazista offrirono riparo a circa 4500 ebrei di Roma, quasi metà dell’intera Comunità Ebraica della Capitale, all’epoca costituita da 10mila -12mila persone.
In fuga dai rastrellamenti nazisti
Otto ore e mezza di terrore, dalle 5.30 alle 14.00, tanto era durato il rastrellamento del 16 ottobre 1943. Accadde di sabato, festa del riposo per la religione ebraica, giorno scelto non a caso dal disegno diabolico dei nazisti la cui intenzione era di eliminare sistematicamente un intero popolo. Finita l’operazione, nelle strade deserte del ghetto risuonavano ancora l’eco delle grida di angoscia dei 1259 ebrei romani, di cui 689 donne, 363 uomini e 207 tra bambini e bambine, prelevati con forza dalle truppe della Gestapo. In 1023 furono subito deportati al campo di sterminio di Auschwitz, solo 16 di loro avrebbero fatto ritorno a casa. Altri, nelle ore notturne precedenti all’incursione, erano fuggiti in cerca di un aiuto.
Ricerca storica basata su testimonianze orali
Impossibile quantificare con precisione il numero totale degli ebrei nascosti e salvati dalla Chiesa cattolica. Tanti i motivi: innanzitutto la quasi totale mancanza di documentazione scritta che per prudenza e al fine di evitare una tracciabilità compromettente fu evitata. Non va infatti omesso il vergognoso fenomeno delle delazioni. Ecco perché la ricerca storica di questa vicenda si basa principalmente sulle testimonianze orali. Ne emerge un quadro variegato: dagli ebrei nascosti in case religiose su libera iniziativa delle stesse, a quelli ospitati in monasteri di clausura su indicazione e dispensa della Santa Sede; dai siti cristiani come le Catacombe di Priscilla, divenuti luoghi di riferimento per la rete dei documenti falsi, alle case religiose che ricevevano viveri dal Vaticano per alimentare i rifugiati ospitati. Dalle strutture che aprivano le porte gratuitamente a quelle che chiedevano il pagamento di una retta.
Nascosti e camuffati da cristiani
L’ospitalità inoltre avveniva secondo modalità diverse: dall’accoglienza di intere famiglie, a quella di soli uomini o donne o bambini. Se in molti casi, per ragioni di sicurezza, gli ospiti dovettero imparare le preghiere cristiane, vi fu anche chi vestì la tonaca quando si preannunciavano blitz nazifascisti. La maggior parte delle testimonianze attesta un pieno rispetto da parte di suore o sacerdoti del loro credo ebraico. Indubbiamente i mesi di convivenza furono un’occasione di conoscenza interreligiosa che aiutò a dissolvere tanti pregiudizi reciproci. Lo conferma la testimonianza di suor Grazia Loparco, suora delle Figlie di Maria Ausiliatrice e docente di Storia della Chiesa alla Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione "Auxilium"di Roma:
Convivenza e condivisione
Il rifugio in Chiese e conventi emerge frequentemente nei racconti dei sopravvissuti. L’accoglienza agli ebrei si effettuò nel più ampio contesto dell’ospitalità ai ricercati politici, agli sfollati e agli orfani. Durante un’emergenza durata mesi, le comunità religiose portarono avanti le loro consuete attività condividendo con gli ospiti le poche sostanze disponibili a causa delle ristrettezze economiche imposte dalla guerra. Negli ospedali i ricoverati si camuffarono da pazienti, nelle scuole da collegiali, negli istituti caritatevoli da invalidi.
Varie le modalità di arrivo in un convento
Le famiglie ebree arrivarono nelle case religiose spesso per conoscenza diretta o tramite liste di conventi consegnati clandestinamente dai vescovi ai comitati ebraici di assistenza. Alcuni erano in possesso di raccomandazioni influenti, altri bussarono alla porta di chiese e monasteri nel disperato tentativo di trovarvi riparo. L’allora segretario particolare di Pio XII, Robert Leiber confermerà nel 1961 alla “Civiltà Cattolica” che il Papa aveva fatto sapere che le case religiose “potevano e dovevano” dare rifugio agli ebrei. Va segnalato che fra settembre e ottobre 1943 la Segreteria di Stato e il Vicariato di Roma fecero distribuire ai vari istituti religiosi cartelli attestanti la extraterritorialità del luogo e finalizzati ad evitare perquisizioni e irruzioni.
L’accoglienza dei padri agostiniani a Roma
Sacerdoti, religiose e religiosi “Giusti tra le Nazioni”
Dei 468 italiani proclamati “Giusti tra le Nazioni” dallo Yad Vashem, il memoriale israeliano dell’Olocausto che dal 1962 esamina i dossier dei non ebrei che salvarono gli ebrei durante la Shoah, circa un ottavo appartengono al clero cattolico: 30 sacerdoti diocesani, 12 religiosi, 15 religiose e 4 vescovi.
Da monsignor Placido Nicolini, capo di una rete di soccorso ad Assisi, al nunzio a Budapest Angelo Rotta, che distribuì agli ebrei 19.000 lettere di protezione con credenziali vaticane. Dalla beata madre Elisabetta Maria Hesselblad, svedese fondatrice delle Brigidine ma attiva durante la guerra nella casa generalizia a Roma, a don Pietro Pappagallo, martire delle Fosse Ardeatine per aver nascosto gli ebrei e distribuito loro documenti falsi; dalle suore Emerenzia Bolledi e Ferdinanda Corsetti che ospitarono 30 ragazze ebree e intere famiglie nel convento romano delle Giuseppine di Chambèry a don Gaetano Tantalo, parroco di Tagliacozzo che conservò fino alla morte un pezzetto del pane non lievitato offertogli dalla famiglia Orvieto che aveva protetto nella sua canonica.
Graziano Sonnino, nascosto nel Collegio gesuita di Mondragone
Nel 2010 la medaglia di “Giusto fra le Nazioni” è stata assegnata al padre gesuita Raffaele de Ghantuz Cubbe che in qualità di rettore del Nobile Collegio di Mondragone, presso Frascati, salvò dallo sterminio nazista tre bambini ebrei, nascondendoli tra gli studenti dell’Istituto. Tra loro c’era Graziano Sonnino:
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