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Il premio Nobel per la Pace Abiy Ahmed Ali Il premio Nobel per la Pace Abiy Ahmed Ali  

Nobel Pace, vescovo etiopico: “Siamo molto felici, una speranza”

L’assegnazione del Nobel all’etiope Abiy Ahmed Ali ha riscosso un pressoché unanime consenso nel mondo. Il commento di monsignor Musiè Ghebreghiorghis, vescovo di Emdibir, dell’Ordine del Frati minori

Antonella Palermo – Città del Vaticano

Abiy Ahmed Ali , il leader più giovane di tutta l’Africa, “ha rapidamente elaborato i principi di un accordo di pace – ha precisato il Comitato di Oslo - per porre fine alla lunga situazione di stallo 'nessuna pace, nessuna guerra' tra Etiopia ed Eritrea”. In Etiopia, anche se rimane molto lavoro da fare, ha cercato di promuovere la riconciliazione, la solidarietà e la giustizia sociale. Il presule Ghebreghiorghis, su Radio Vaticana–Vatican News, si compiace di questa scelta.

Ascolta l'intervista a mons. Ghebreghiorghis,

R: - Noi, come etiopici, siamo molto felici che il Nobel per la Pace sia stato assegnato al nostro primo ministro che da un anno e mezzo governa la nazione e lo sta facendo molto bene. L’Etiopia ha attraversato momenti molto difficili. Appena eletto, ci ha dato molta speranza per una vita migliore nel Paese. E’ stato osannato anche dalla comunità internazionale. E’ un premio soprattutto dovuto al suo impegno per la pace tra Etiopia ed Eritrea che hanno combattuto una guerra fratricida. Nel giro di un mese Abiy Ahmed Ali, con una stretta di mano, è riuscito a portare la pace: le frontiere erano chiuse, ora sono aperte; il commercio era tutto bloccato, ora è aperto. Si è adoperato anche per favorire la pace nel Sud Sudan, in Somalia e nei paesi vicini. Noi lo consideriamo come un profeta inviato dal Signore. Parla un linguaggio molto ricco di umanità, parla di amore, perdono, dialogo, dell’importanza di evitare le guerre. Secondo lui ricorrere alle armi è sempre una sconfitta.

Quali sono ancora le conseguenze visibili di questa guerra?

R: - Tanti giovani hanno perso la vita. L’Eritrea è rimasta completamente isolata dalla comunità internazionale. Tantissimi giovani sono fuggiti dalla loro nazione per trovare una vita migliore e tanti hanno perso la vita per strada, nel deserto o in mare. E’ una situazione tragica che sicuramente la storia ricorderà.

Quale è l’impegno e quali le sfide della Chiesa in Etiopia, oggi?

R: - I cattolici sono una minoranza, rappresentiamo lo 0,7% della popolazione, circa 700mila persone. Ciò nonostante, portiamo avanti da sempre il 25% delle attività sociali nel Paese, per lo sviluppo integrale della persona. Per esempio l’educazione. Abbiamo aperto tante scuole. La Chiesa cattolica sta cercando di affrontare come può le diverse sfide che si presentano, con le risorse che ha. Ovviamente deve rivolgersi alla Chiesa universale, tanti aiuti ci vengono dall’Europa, dall’America. Soprattutto la CEI ci aiuta tanto per le infrastrutture: ora stiamo costruendo una università cattolica ad Addis Abeba ed è proprio la Conferenza Episcopale Italia, con l’8x1000, a darci una mano. Inoltre operiamo nel campo sanitario. Nella mia diocesi, per esempio, abbiamo una quarantina di scuole, 9 dispensari, 2 ospedali…

Ci sono anche progetti per promuovere l’impegno delle donne in agricoltura…

R: - Certo, abbiamo delle associazioni, “Un chicco per Emdibir”, per esempio, e tante altre, che sostengono le nostre attività. In questa epoca di crisi economica mondiale, gli aiuti non ci sono mancati. Il 95% della popolazione vive di agricoltura: abbiamo bisogno di promuovere questo settore perché tutto dipende da lì.

Stiamo celebrando l’ottobre missionario straordinario. Cosa significa per le sue terre?

R: - Per noi è un risveglio all’attività missionaria. Questa è stata una felice idea di Papa Francesco. La Buona Novella la possono portare non solo i sacerdoti, i diaconi, i catechisti, ma tutti i battezzati. E infatti il tema è proprio “Battezzati e inviati”, vale a dire che, come cristiani, possiamo trasformare il mondo. E’ un richiamo verso ciascuno a vivere una vita cristiana che sia contagiosa, che possa portarli a Dio. Noi questo lo vediamo in pratica nelle nostre esperienze quotidiane: nella diocesi dove sono io, per esempio, abbiamo tanti volontari che vengono da altri continenti; tanti di loro sono battezzati, ma forse non del tutto credenti, oppure appartengono ad altre religioni. Quando vedono che in questi paesi del terzo mondo la gente è ancora molto religiosa, va in chiesa, prega, si impegna nella vita spirituale, si sentono anche loro attratti a vivere la fede in una maniera rinnovata.

Come guarda al Sinodo per l’Amazzonia in corso in Vaticano?

R: - E’ una cosa buona questa convocazione. Il problema dell’Amazzonia, ricordiamocelo, non è circoscritto a quella regione del mondo. Forse le notizie non arrivano, ma altrettanto allarmanti condizioni ci sono in Africa e in Asia. E’ una causa mondiale di cui prendersi carico.
 

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12 ottobre 2019, 11:10