Myanmar: l’Onu condanna gli abusi sui Rohingya
Cecilia Seppia – Città del Vaticano
Un primo passo verso il rispetto dell’identità e l’uguaglianza. Con 134 voti a favore su 193 Paesi rappresentati, 9 contrari e 28 astenuti, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione di condanna per abuso dei diritti umani - arresti arbitrari, torture, violenze - ai danni dei Rohingya che vivono in Myanmar. D’altra parte si chiede al governo locale di adottare misure urgenti per contrastare qualsiasi forma di incitamento all’odio, verso qualunque minoranza. L'ambasciatore all’Onu del Myanmar, Hau Do Suan, ha definito però la risoluzione “un altro classico esempio di doppio standard e applicazione selettiva e discriminatoria delle norme sui diritti umani”, aggiungendo che l’Assemblea con questo atto non ha cercato di trovare una soluzione per la complessa situazione dello Stato di Rakhine e “si è rifiutata di riconoscere gli sforzi del governo per affrontare le tante sfide nel Paese”.
Un segnale forte
“E’ una risoluzione importante votata a larga maggioranza, certo è relativamente vincolante perché esprime un giudizio ma non ha la stessa forza che avrebbe avuto in passato una risoluzione del Consiglio di Sicurezza” commenta Emanuele Giordana, giornalista esperto di questioni asiatiche e condirettore della testata on line Atlante Guerre. “E’ comunque da considerare un segnale forte – anche se abbiamo visto che pochi giorni fa Aung San Suu Kyi ha giustificato davanti al Tribunale penale internazionale dell’Aia quanto successo nel suo Paese, come una questione interna che riguarda il conflitto armato contro il terrorismo, e inoltre il Myanmar non sembra intenzionato ad agevolare il rientro dei Rohingya dal Bangladesh, che ricordiamo sono oltre 700 mila persone - però questo passo delle Nazioni Unite costituisce un precedente: ci dice che non si può commettere reati senza che il mondo non se ne accorga, anche se sono passati più di due anni dall’ultimo esodo e molti di più da quando i Rohingya sono stati cacciati dal Myanmar. Comunque è la prima risoluzione di questo genere che riguarda cioè un numero di persone così grande… Il caso del Myanmar ha suscitato reazioni forti non solo in Occidente, ma anche in Asia, in Paesi a maggioranza musulmana e adesso comincia a diventare un dossier internazionale e questo può aiutare anche la premier Aung San Suu Kyi a fare delle scelte più coraggiose e i militari, speriamo, a fare un passo indietro”.
L'appello del Papa
Sebbene le risoluzioni dell’Assemblea generale non siano giuridicamente vincolanti, riflettono dunque quella che è l’opinione e la sensibilità del mondo. La Comunità internazionale da tempo infatti condivide l’urgenza di mettere fine alle troppe violazioni subite dai deboli, dagli indifesi, dai “senza voce”. Pensiero questo che rappresenta un caposaldo nel Pontificato di Francesco e nel suo magistero delle periferie. Risuonano ancora le parole del Papa pronunciate durante l’incontro a Dacca con i leader religiosi, nel corso del suo viaggio apostolico in Bangladesh e Myanmar. Salutando un gruppo di profughi Rohingya, il Pontefice chiese perdono per ogni persecuzione o male subito e disse una frase destinata a fare in breve il giro del mondo: “Anche questi fratelli e sorelle sono l'immagine del Dio vivente… Continuiamo a stare vicino a loro perché siano riconosciuti i loro diritti. Non chiudiamo il cuore, non guardiamo dall'altra parte. La presenza di Dio oggi si chiama anche Rohingya”.
Nessuno escluso
Più volte il Papa ha invocato una “pace inclusiva per tutti”, più volte pensando ai Rohingya ha implorato di non ignorare il principio universale “del rispetto di ogni gruppo etnico e della sua identità", di un “ordine democratico” che dia finalmente “libertà a tutti, nessuno escluso”. Durante l’Angelus del 27 agosto 2017, poco prima di partire alla volta del Myanmar, Francesco pregò per “i fratelli Rohingya”, chiedendo a Dio di salvarli e di suscitare presto uomini e donne capaci di aiutarli.
I Rohingya
Musulmani in un Paese a maggioranza buddhista, i Rohingya sono poco meno di un milione, su una popolazione totale di 50. La maggior parte di loro vive nello Stato di Rakhine – e si è stabilita in Myanmar da generazioni, pur essendo originari del vicino Bangladesh. Nel 1982 la giunta militare li privò della cittadinanza, accusandoli di essere arrivati dopo il 1823, data di inizio della colonizzazione britannica. Ancora oggi sono apolidi, non hanno diritto di voto, hanno grossi limiti nell’accesso all’istruzione, alla sanità, alla proprietà. A loro è negata la libertà di movimento e altri diritti fondamentali. La lunga crisi che ha segnato questo popolo è esplosa il 25 agosto del 2017 quando il governo ha ordinato all'esercito una violenta operazione di sgombero nello Stato di Rakhine: migliaia di persone morirono e più di 700 mila Rohingya fuggirono in Bangladesh.
Grazie per aver letto questo articolo. Se vuoi restare aggiornato ti invitiamo a iscriverti alla newsletter cliccando qui