Giornata popoli indigeni, "grido vivente" al rispetto della natura
Gabriella Ceraso - Città del Vaticano
Povertà, discriminazione, esclusione dei processi decisionali politici ed economici, sfruttamento: sono tanti ancora i problemi che affliggono i popoli indigeni nel mondo, su tutti oggi si abbatte anche il flagello della pandemia di coronavirus che li trova impreparati e fragili.
I vulnerabili del nostro PIaneta
Anche questo al centro della Giornata Internazionale dei Popoli Indigeni, istituita dall'Assemblea Generale dell’Onu, ogni 9 agosto, dal 1994, per promuovere i diritti delle comunità native del pianeta. Sparse in 70 nazioni diverse, sono oltre 370 milioni - il 6 per cento della popolazione del nostro Pianeta - e parlano più di 5 mila lingue, delle quali il 25% è ancora sconosciuto. Gli indigeni purtroppo rappresentano anche il 15% dei poveri del mondo. Abitano nelle foreste, nelle praterie, nei deserti, ma anche tra i ghiacci perenni. Alcuni oggi sono ormai indistinguibili dalle società che li circondano; molti conservano, invece, completamente la loro identità distinta, pur vivendo da secoli a contatto o al fianco dei colonizzatori; altri invece rappresentano sicuramente le società più vulnerabili del nostro Pianeta e non hanno ancora oggi alcuna relazione con il mondo esterno. Sono piccole tribù – se ne contano almeno 100 in tutto il mondo – che rischiano di perdere, anche semplicemente con un contatto, la loro vita e il loro futuro; non hanno sviluppato - per esempio - resistenze immunitarie contro le malattie più comuni che possono sterminarli.
La pandemia e i popoli indigeni
Oggi più che mai questo è vero con la pandemia di Covid- 19. Ripetuti in tal senso sono gli allarmi della Chiesa, delle Ong e dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, che denuncia con dati ufficiali quanto l’impatto della pandemia di coronavirus, sebbene colpisca le persone di ogni ceto sociale, aggredisca in particolare i più poveri e vulnerabili. Solo dal mese di luglio, tra le popolazioni indigene delle Americhe, sono stati segnalati dall' Oms oltre 70mila casi di Covid-19 e oltre duemila morti. Più di recente, sono stati individuati almeno sei casi tra il popolo Nahua, che vive nell’Amazzonia peruviana. Una situazione preoccupante, che si intreccia a questioni di sfruttamento economico e ambientale dei territori in cui vivono, tanto da spingere l’Articolazione dei popoli indigeni del Brasile (Apib) a parlare di “un concreto rischio di genocidio“.
Rispetto, tutela della loro dignità e coinvolgimento nei grandi progetti che interessano i loro spazi. E' quanto il Papa non ha mai smesso di chiedere per i popoli indigeni, in particolare nell'Enciclica Laudato si' in cui si riconosce il loro legame fortissimo col territorio, non come un bene economico "ma un dono di Dio e degli antenati che in essa riposano, uno spazio sacro con il quale hanno il bisogno di interagire per alimentare la loro identità e i loro valori". "Quando rimangono nei loro territori - scrive Francesco - sono quelli che meglio se ne prendono cura. Tuttavia, in diverse parti del mondo, sono oggetto di pressioni affinché abbandonino le loro terre e le lascino libere per progetti estrattivi, agricoli o di allevamento che non prestano attenzione al degrado della natura e della cultura".
Il rapporto con la terra e la saggezza ancestrale
Incontrando nel febbraio del 2019 nella sede della Fao a Roma, in occasione della cerimonia di apertura della 42.ma Sessione del Consiglio dei governatori dell’Ifad, i partecipanti al Forum internazionale dei popoli indigeni, Francesco si intrattiene con una rappresentanza di 31 differenti popoli indigeni provenienti da America, Africa, Asia e area del Pacifico. In quell'occasione parla di loro come del "grido vivente” a favore della speranza, loro che ci ricordano la responsabilità "comune nella cura della ‘casa comune’”, loro che sanno dialogare con la terra, che oggi soffre, sanno ascoltarla, vederla, toccarla. Conoscono l’arte di vivere in armonia con essa: e ciò devono impararlo anche coloro che sono tentati da una sorta di illusione progressista ai danni della terra. Francesco richiama in quell'occasione il detto dei nonni: “Dio perdona sempre, gli uomini a volte perdonano, la natura non perdona mai”, guardando ai maltrattamenti e allo sfruttamento contemporanei e ai popoli indigeni affida il compito di trasmettere tale saggezza ancestrale. Quello che serve, evidenzia il Papa, è unire le forze in un dialogo “paziente e generoso”.
Dando alla Chiesa un Sinodo dedicato all'Amazzonia e un documento finale come l'Esortazione post sinodale Francesco ha posto ancora di più l'attenzione dell'umanità su temi come " l'incontro interculturale”, il rifiuto di “un indigenismo completamente chiuso” e su quello delle “culture minacciate e dei popoli a rischio”. Su tutto la sua raccomandazione: "E' necessario assumere la prospettiva dei diritti dei popoli” che “difficilmente potranno conservarsi indenni” se l’ambiente, in cui sono nati e si sono sviluppati, “si deteriora”.
Nel bel mezzo della pandemia, quando i primi dati dell'impatto sulle popolazioni indifese iniziavano a pervenire, la preghiera del Papa si è levata soprattutto per l'Amazzonia. Indimenticabile l'invocazione di Francesco a Pentecoste:
Economia e interessi umani che non guardano al futuro del Creato e si trasformano in minacce per gli indigeni, ma anche per l'intero pianeta: parte da questo anche la riflessione di monsignor Piero Conti vescovo della Diocesi brasiliana di Macapá, che interviene sulla Giornata internazionale dei popoli indigeni segnata dall'emergenza coronavirus:
R. - La giornata mondiale dei popoli indigeni giustamente ci interroga su cosa facciamo sapendo che il coronavirus e la pandemia sono arrivati anche nei villaggi indigeni. Chi ha portato il coronavirus nei villaggi più distanti? Sono stati purtroppo quelli che noi chiamiamo i garimperos, i cercatori d'oro. Sono loro che incontrano gli indios, che trattano con loro. Sono situazioni difficili da controllare. Per quello che noi possiamo dire, l'isolamento è necessario e siccome i villaggi sono lontani, quando qualcuno sta male, bisogna ricorrere agli elicotteri e agli aerei a volte. Quindi è importante esigere che il governo, il Ministero della Salute e l'Organizzazione della Salute degli indios, facciano il possibile.
Cosa si può fare oggi alla luce dei risultati del Sinodo, dedicato all'Amazzonia, ma anche dei ripetuti appelli che il Papa ha lanciato per la protezione delle popolazioni indigene ?
R. - Quello che possiamo fare è difendere quello che abbiamo espresso nel documento "Querida Amazonia", convincere le persone che questo è il cammino che salverà il Creato, e che solo così potremmo consegnare alle prossime generazioni una casa comune che sia abitabile, perché dall'altra parte il peso è sempre quello dei progetti che chiamano "Progresso". Stiamo parlando di occupare la terra, di trasformare purtroppo la foresta, la natura, la casa comune per le piantagioni, specie quelle di soia. I vantaggi sono tanti e sono vantaggi economici, mentre si dimenticano gli svantaggi così prodotti, non solo per i popoli indigeni che abitano nella foresta, ma anche per il clima globale del pianeta. Pensiamo di poter modificare la natura a nostro piacimento, ma non è così.
Qual è il rapporto, ma soprattutto, qual è l'interazione possibile oggi con le istituzioni su questi temi?
R. - Intervenire non è facile, ma quello che possiamo fare, come opinione pubblica e come Chiesa, è cercare di sapere, di conoscere, di vedere, di denunciare, perché la situazione non sia così tragica, altrimenti, purtroppo, le conseguenze le vedremo nei prossimi mesi o sicuramente nei prossimi anni.
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