Allarme terrorismo nel Sahel. Padre Armanino: serve ricostruire con dignità
Benedetta Capelli – Città del Vaticano
Nella zona dei “tre confini” che comprendono Mali, Niger e Burkina Faso, il presidente ciadiano Idriss Déby Itno ha annunciato l’invio di 1.200 soldati per combattere i jihadisti. Una decisione che arriva dopo il vertice G5 Sahel, svoltosi a N'Djamena, al quale hanno preso parte Ciad, Niger, Mauritania, Niger, Burkina Faso ma anche la Francia con il presidente francese Emmanuel Macron che, in videoconferenza, ha lanciato un appello per sconfiggere i gruppi terroristici affiliati ad Al-Qaeda, esortando poi i Paesi dell’area ad un “sussulto” politico con un ritorno dello Stato nei territori abbandonati della regione. Allo stesso tempo, il capo dell’Eliseo ha assicurato che non intende ridurre nell’immediato il numero delle truppe francesi presenti sul territorio e che ammontano a 5.100 unità. Una presenza aumentata nell’ultimo anno a causa dell’escalation della violenza, nel 2020 sono stati sei i peacekeeper delle Nazioni Unite uccisi in Mali, mentre da dicembre hanno perso la vita cinque soldati francesi.
Un problema soprattutto politico
Nel Sahel operano numerosi gruppi terroristici, alcuni legati al sedicente Stato Islamico, per tutti la guerra è anche un affare economico. In poco tempo il terrorismo si è diffuso in modo capillare, andando a coprire le mancanze dei governi e dello Stato. Gravi le ripercussioni umanitarie, si calcola che quasi due milioni di persone si siano spostate compromettendo così il futuro di un’intera generazione di giovani, la vera forza di questi Paesi, e quello delle loro nazioni. Padre Mauro Armanino, missionario della Società delle missioni africane è a Niamey, in Niger, uno dei Paesi fortemente segnati dalla presenza del terrorismo. Sul dispiegamento di oltre mille soldati da parte del Ciad afferma che è un passo importante ma non sufficiente, “occorre – sottolinea - un lavoro anche di ricostruzione a livello sociale economico e politico”. Per padre Armanino il problema è soprattutto politico e questo ha ripercussioni sull’educazione, sull’organizzazione del diritto anche se, su questo fronte, segnala la creazione di un “tribunale nomade” al confine di Mali, Niger e Burkina Faso per dirimere le questioni di proprietà e territoriali. Un passaggio importante.
Il terreno fertile dei jihadisti
“Il primo passo – sottolinea padre Armanino - è quello mentale e cioè ricreare luoghi e spazi dove la politica va intesa come luogo di riprogettazione e di ricostruzione di un altro immaginario sociale. Un modo per ricominciare attraverso cantieri sociali con i poveri, con i giovani, con le donne che sono sostanzialmente escluse da tutti questi processi. Non ci sarà la pace senza il coinvolgimento di queste realtà”. Da tempo in Niger, Paese giovane dove l’età media dei giovani è di 15 anni, il missionario rivela di aver visto dei segni di cambiamento nella società ma ribadisce che le istituzioni sono fragili e che non bisogna farsi troppe illusioni perché negli anni si è assistito ad un processo di dissoluzione del sistema educativo e sanitario. Un processo, ammette, che non può dirsi concluso. Per questo i jihadisti trovano un terreno fertile “perché in qualche modo – sottolinea – prendono il posto di uno Stato assente nella salute, nell’amministrazione della giustizia”. “Io penso che il cammino da percorrere sia difficile soprattutto se ci sono regioni nelle quali lo Stato non mette più piede”.
Qui per la dignità umana
“La vera causa dell’instabilità del Sahel – aggiunge il missionario – è la povertà, la sopravvivenza, la ricerca del mangiare soprattutto con le carestie e milioni di persone allontanate dalle loro terre. Per questo parlo di ricostruzione di un tessuto sociale che ridia speranza e vigore alla realtà infantile e giovanile che in tutti questi anni è stata completamente cancellata”. Il pensiero va poi all’insicurezza che anche i religiosi vivono, pensiamo alla lunga prigionia di padre Gigi Macalli, liberato in Mali nel 2020, e di suor Gloria Narvarez, rapita 4 anni fa. Padre Mauro confessa di poter lasciare Niamey solo con la scorta. “Tutto è molto fragile ed è una fragilità legata al fatto di essere occidentali e cristiani ma abbiamo una serenità di fondo che ci viene dall’accompagnare il cammino di questa gente. In qualche modo – spiega – la loro ferita è diventata la nostra ferita. Anche Gesù ha condiviso la vita con il lebbroso e le ferite delle persone ci toccano, quindi siamo qui per condividerle, per essere presenti finché si può perché non esistono soluzioni miracolo. Siamo qui come un elemento attento, profetico, se questa parola ha ancora un senso da queste parti, di richiamo a quello che è l'essenziale cioè la dignità umana. Siamo qui per la dignità umana”.
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