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L'attentato di martedì a Mogadiscio contro il convoglio presidenziale L'attentato di martedì a Mogadiscio contro il convoglio presidenziale  

La Somalia stretta nella morsa della violenza jihadista

Un attentato di al-Shabaab al convoglio presidenziale ha provocato 4 vittime a Mogadiscio. Sicurezza a rischio in uno dei Paesi più poveri al mondo, devastato da instabilità, violenze, e cambiamenti climatici

Giada Aquilino - Città del Vaticano

L’Unione africana lo ha definito «vile», l’Unione europea «atroce». È l’attentato che martedì scorso a Mogadiscio ha preso di mira il convoglio del presidente della Somalia, Hassan Sheikh Mohamud. Una bomba è esplosa poco dopo il passaggio del corteo presidenziale: Mohamud è rimasto illeso ma 4 persone sono rimaste uccise e un hotel è stato distrutto. A rivendicare l’azione è stato il gruppo terroristico al-Shabaab, contro cui l’esercito proprio in queste settimane sta avviando una grande offensiva nello Stato centro-meridionale di Hirshabelle, dove il presidente era diretto al momento dell’attentato. 

Il gruppo terroristico più mortale in Africa

Affiliati ad al-Qaeda, con un passato legato all’Unione delle corti islamiche che nei primi anni Duemila combatteva il potere dei Signori della guerra per spartirsi il territorio dopo la caduta di Mohammed Siad Barre nel 1991, gli al-Shabaab si oppongono al governo federale della Somalia, sferrando attacchi altamente letali. Secondo un rapporto dell’Onu, il gruppo terroristico è il più mortale in Africa: nel 2022 ha provocato 733 vittime, il 97% di tutti i decessi legati al terrorismo quell’anno a livello planetario, peraltro in uno dei Paesi più poveri al mondo, percorso da instabilità e violenze, oltre che stretto nella morsa delle conseguenze devastanti dei cambiamenti climatici. Nella lista delle nazioni per indice di sviluppo umano, la Somalia risulta all’ultimo posto su 193 Stati. Soltanto lo scorso 11 marzo un altro attacco degli estremisti islamici aveva causato la morte di almeno 9 persone in un albergo di Beledweyne, nel centro del Paese, dove si stava tenendo una riunione dei vertici della sicurezza e dei capi delle comunità locali per mobilitare le milizie da schierare al fianco delle forze governative nella lotta ai jihadisti, che controllano perlopiù le aree rurali, con alcune sacche anche in Kenya e in Etiopia.

La risposta dell'esercito

Da tempo le autorità di Mogadiscio portano avanti una guerra «totale» contro al-Shabaab e altri gruppi terroristici, con operazioni dell’esercito appoggiate proprio da milizie dei clan territoriali nel quadro di un’offensiva sostenuta dall’Unione africana e affiancata da attacchi aerei americani. Ad inizio febbraio il presidente statunitense Donald Trump — poco dopo il proprio insediamento alla Casa Bianca e in controtendenza rispetto al suo primo mandato, quando aveva deciso il ritiro di circa 700 soldati Usa dal Paese del Corno d’Africa — aveva ordinato raid contro terroristi e militanti nella regione semiautonoma somala del Puntland, a caccia dei leader del sedicente Stato islamico (Is) nella zona. Dopo l’ultimo attentato, Hassan Sheikh Mohamud ha ribadito di continuare a perseguire l’obiettivo di liberare il Paese dagli al-Shabaab. A Mogadiscio è arrivato l’appoggio del segretario generale dell’Onu, António Guterres, che ha espresso sostegno al popolo e al governo somali «nella lotta contro il terrorismo e nel promuovere gli sforzi verso la pace». Nel mezzo, però, rimane il peso di una pluridecennale instabilità, in un territorio ancora troppo frammentato che vive, tra le altre, le rivendicazioni separatiste del Somaliland, regione settentrionale autodichiaratasi indipendente nel 1991 ma non riconosciuta a livello internazionale. 

Il piano di Trump su Gaza

Hargeisa, oltre a portare avanti accordi commerciali con l’Etiopia, negli ultimi mesi aveva pure espresso la speranza che il presidente Trump si dimostrasse favorevole alla propria causa. Poi — nel pieno delle polemiche seguite al progetto di reinsediamento dei palestinesi di Gaza paventato dal capo della Casa Bianca e di fronte alla notizia diffusa dalla stampa di contatti tra funzionari statunitensi e israeliani con Sudan, Somalia e Somaliland al fine di discutere l’utilizzo dei loro territori per tale eventuale ricollocamento — il Somaliland ha fatto sapere che «non ci sono colloqui» in corso. Anche il ministro degli Esteri somalo, Ahmed Moalim Fiqi, ha negato l’esistenza di discussioni al riguardo, specificando al contempo che il proprio Paese respingerà qualsiasi «iniziativa che possa minare il diritto del popolo palestinese a vivere pacificamente nella propria terra». Pure in questo caso, le posizioni di Mogadiscio e Hargeisa non collimano del tutto.

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