La predilezione dei Papi per il ciclismo
Giancarlo La Vella - Città del Vaticano
Il sacerdote che percorre in bicicletta le strade del territorio della sua parrocchia è un’immagine divenuta familiare grazie, forse, al ciclismo agonistico, quello che in Italia diventa a tutti gli effetti uno sport con il primo Giro del 1909, appena sei anni dopo la nascita del Tour de France, prima storica corsa a tappe per gli atleti delle due ruote. Il sudore dei ciclisti sul piano, sulle montagne e sulle discese suscita da subito l’entusiasmo e la passione di uomini, donne e ragazzi che affollano le strade al passaggio dei primi beniamini, che all’epoca, rispondono ai nomi di Guerra, Binda e Girardengo.
La benedizione di Pio X e quella di Benedetto XV
Era quello di allora un ciclismo sporco di fango, a causa delle ancora poche strade asfaltate, emblema di uno sport dove la fatica era tanta e i soldi ancora pochi, al quale giunge la benedizione prima di Papa Pio X poi di Papa Benedetto XV, antesignani tra i successori di Pietro ad offrire il proprio plauso ad un’attività agonistica fatta di impegno e sacrificio, dove a vincere è il singolo atleta, ma grazie all’opera di oscuri gregari, anch’essi spettatori senza allori delle vittorie dei loro capitani. Con il ciclismo diviene nota ai più anche l’orografia italiana, perché è proprio sulle montagne che le gare ciclistiche diventano epopea e leggenda. Sono ormai epici nomi come Stelvio, Mortirolo, Zoncolan, Blockhaus della Maiella e altri. Ad essi sono strettamente legate le gesta di campioni di ieri e di oggi. Alcuni esempi: dire Stelvio vuol dire pensare a “quell’uomo solo, con la maglia bianco-celeste, dal nome Fausto Coppi”, che proprio sulla salita altoatesina firmò una delle pagine memorabili di uno sport che, se ci fossero strade idonee, arriverebbe anche al cielo. Il Mortirolo, invece, fa pensare al grande e sfortunato Marco Pantani.
Pio XII e il Giro d’Italia
I campioni della prima ora vengono di anno in anno sostituiti da altri protagonisti, come Bottecchia, lo stesso Coppi e Gino Bartali, ma anche i nomi di ciclisti stranieri diventano familiari: applausi, dunque, anche per i vari Bobet, Robic, Koblet. Atleti la cui carriera subì il duro colpo di due guerre mondiali. Ed è proprio durante il secondo conflitto mondiale che spicca l’umanità di un uomo di fede come Gino Bartali. Oggi dichiarato “Giusto tra le Nazioni” dallo Yad Vashem, il memoriale israeliano delle vittime dell’olocausto, il ciclista toscano, non impegnato nell’attività agonistica, sospesa a causa della guerra, rischiò la sua vita per salvare quella di tanti ebrei perseguitati dai nazisti col rischio di finire nei campi di concentramento. Usando la sua bicicletta per nascondere documenti falsi, il campione contribuì a salvare quasi mille persone. Durante questi allenamenti qualche volta veniva fermato dai militari tedeschi, che, distratti dalla sua popolarità, finivano per fargli domande sul ciclismo. Bartali, militante dell’Azione Cattolica e terziario carmelitano, venne ricevuto il 26 giugno 1946, praticamente alla ripresa post bellica dell’attività sportiva, da Papa Pio XII. Eugenio Pacelli è il primo Pontefice a incontrare i ciclisti del primo Giro dopo la Seconda guerra mondiale. Poi, dopo altre udienze private al ciclista toscano e alla sua famiglia, nel 1950, anno giubilare che vide concludersi la corsa rosa a Roma, fu ancora Pio XII che, inaspettatamente, andò incontro a Bartali e al calvinista svizzero Koblet. I due rivali furono così ecumenicamente accomunati dall’iniziativa del Pontefice.
Bartali, campione di umanità
Gino Bartali mostrò la sua grande umanità e vicinanza al prossimo anche in gara, laddove la logica della vittoria a tutti i costi vorrebbe che la propria affermazione prevalga comunque sull’avversario. Lo dimostrano tanti esempi noti, come il passaggio della bottiglia dell’acqua all’amico-nemico Coppi durante il Tour de France o il clamoroso recupero e la conquista della maglia gialla in un’altra edizione, mentre l’Italia rischiava la guerra civile a causa dell’attentato al leader comunista, Achille Togliatti. Ma Gino non volle mai il merito di aver calmato le acque in patria grazie alle sue gesta sul Galibier e sul Vars. Soprattutto un altro episodio, meno noto ai più, mostra il grande rispetto di Bartali verso la vittoria e verso i colleghi. Si correva la Milano-Sanremo del 1947, la “Classica” che allora, nel giorno di San Giuseppe, apriva la stagione agonistica. In una giornata di tregenda atmosferica un corridore senza allori, Ezio Cecchi, che la inventiva popolare definiva “lo scopino di Monsummano” (oggi si direbbe “operatore ecologico”), dette vita ad una lunga fuga. In vista delle palme della riviera sanremese anche le ultime forze lo stavano per lasciare, proprio mentre dal gruppo era fuggito Bartali. Alle porte di Sanremo, Gino affiancò Cecchi. Lo guardò ripetutamente negli occhi, quasi a voler dire: “Siamo quasi arrivati, ce la giochiamo nello sprint di via Roma. Non puoi cedere adesso dopo ore di fuga solitaria”. Poi la migliore condizione di Bartali ebbe quasi a malincuore la meglio. Cecchi in pochi chilometri perdette 4 minuti, giungendo comunque secondo.
Da Giovanni XXIII a Francesco: Viva il ciclismo
Il legame dei Pontefici con lo sport delle due ruote è proseguito sino a Papa Francesco. Il 3 giugno 1963 la notizia della morte di Giovanni XXIII raggiunse la carovana rosa nella tappa di Treviso. La gara del giorno successivo si disputò in un clima mesto e senza premiazioni. Il leader della classifica Balmamion partecipò con una fascia nera al braccio in segno di lutto. Ci spostiamo al 1964, quando nel mese di maggio Paolo VI rivolse il suo saluto ai corridori del Giro d’Italia incontrati nel giorno in cui transitavano nella città di Roma. Nelle sue parole il Pontefice paragonò lo sport alla vita. “Lo sport è simbolo d’una realtà spirituale, che costituisce la trama nascosta, ma essenziale, della nostra vita: la vita è uno sforzo, la vita è una gara, la vita è un rischio, la vita è una corsa, la vita è una speranza verso un traguardo, che trascende la scena dell’esperienza comune, e che l’anima intravede e la religione ci presenta”.
Il 57esimo Giro d'Italia parte dal Vaticano
Paolo VI rinnovò la sua simpatia per lo sport e per il ciclismo in particolare nel maggio del 1974 a pochi mesi dall’avvio del Giubileo. Proprio in occasione dell’Anno Santo, la 57^ edizione del Giro partì dalla Città del Vaticano. E’ rimasta storica l’istantanea del Papa tra Felice Gimondi ed Eddy Merckx, che in quell’edizione dettero vita ancora una volta ad un appassionato confronto che il campione belga si aggiudicò con una manciata di secondi sul giovane Baronchelli e sullo stesso Gimondi. Anche Papa Luciani amava il ciclismo. Da Patriarca di Venezia salutò l’edizione del 1972. “Nulla di ciò che è umano è estraneo alla Chiesa. Sono qui – disse – per amore del Giro, ma anche per amore di Venezia». San Giovanni Paolo II era appassionato di sport anche praticato. Si racconta che gli fu donata una bicicletta di Ernesto Colnago. Sergio Sanvido, altra firma illustre dell’industria ciclistica, costruì invece una bicicletta per Papa Benedetto XVI.
Papa Francesco nel 2013 benedice la maglia rosa
Il resto è praticamente storia di questi giorni. Papa Francesco, due mesi dopo l’elezione nel 2013, benedì la maglia rosa, simbolo del primato del Giro. Nel settembre 2015 gli venne regalata una bici elettrica Smart di marca tedesca e molti sono i riferimenti, in omelie e discorsi, al particolare sport che è il ciclismo, metafora della vita umana. Insomma tutto converge sulla grande passione che il ciclismo ancora oggi suscita nella gente comune e anche nei Pontefici. Un amore che spesso ci porta a perdonare gli scandali doping che negli ultimi anni hanno colpito questo sport, nel quale riescono a prevalere solo atleti e persone vere.
Grazie per aver letto questo articolo. Se vuoi restare aggiornato ti invitiamo a iscriverti alla newsletter cliccando qui