Il Papa prega per l'Etiopia: cessino le violenze, sia tutelata la vita
Gabriella Ceraso e Emanuela Campanile - Città del Vaticano
Attenzione, preghiera e poi un appello alle parti in conflitto per il raggiungimento della pace. Questo nel cuore di Papa Francesco di fronte al conflitto che dall'inizio del mese nel nord dell'Etiopia vede fronteggiarsi le truppe federali e il Fronte Popolare di Liberazione del Tigray il partito al governo nella regione. L'intero Corno d'Africa è minacciato e già si contano centinaia di vittime e piu' di 40 mila sfollati che hanno raggiunto il vicino Sudan.
Scontri, sfollati e vittime
"Il Santo Padre - comunica il direttore della Sala Stampa Vaticana - segue le notizie che giungono dall’Etiopia, dove da alcune settimane è in corso uno scontro militare, che interessa la Regione del Tigray e le zone circostanti. A causa delle violenze, centinaia di civili sono morti e decine di migliaia di persone sono costrette a fuggire dalle proprie case verso il Sudan".
Durante l’Angelus dello scorso 8 novembre, Papa Francesco, riferendosi al conflitto in corso in Etiopia - prosegue Matteo Bruni - aveva detto: "Mentre esorto a respingere la tentazione dello scontro armato, invito tutti alla preghiera e al rispetto fraterno, al dialogo e alla ricomposizione pacifica delle discordie”.
La realtà sul terreno parla di scontri che - prosegue la Dichiarazione - si sono intensificati di giorno in giorno, provocando una grave situazione umanitaria.
La preghiera del Papa e l'appello alla pace
Il Santo Padre - si legge ancora nel comunicato - nell’invitare alla preghiera per questo Paese, rivolge alle parti in conflitto un appello perché cessino le violenze, sia salvaguardata la vita, in particolare dei civili, e le popolazioni possano ritrovare la pace.
La cronaca
Le speranze e la preghiera del pontefice arrivano in un momento critico sul terreno. Non ci sono possibilità di dialogo con i leader della regione del Tigray, è quanto ha ribadito nelle ultime ore il premier etiope Abiy Ahmed durante un incontro con gli inviati speciali dell'Unione africana arrivati in Etiopia per porsi da mediatori e trovare una soluzione al conflitto.
Le cause del conflitto
A innescare le tensioni, il rinvio delle elezioni generali a causa del Covid-19. Una scusa secondo il gruppo etnico dei tigrini che ha accusato il governo federale di non voler concedere autonomia al Tigray. Motivazioni che, come spiega l'africanista Anna Bono ai nostri microfoni, celano quella che sarebbe la reale radice del conflitto, e cioè che fino all'arrivo al governo del premier etiope, Abiy Ahmed, a tenere il controllo del potere centrale era proprio il gruppo del Tigray. Poi la prima mossa il 4 novembre quando il premier ha deciso di inviare le truppe nella regione ribelle sostenendo che il Tplf avesse attaccato una base dell'esercito federale. Da quel momento tutta la regione risulta isolata.
Il dramma umanitario
Oggi dopo l'incontro con gli inviati speciali dell'Ua, Abiy ha dichiarato che il suo governo sta provando a garantire la protezione dei civili con eventuali corridoi umanitari e che accoglierà i rifugiati etiopi fuggiti in Sudan a seguito delle ostilità.
Tuttavia, Abiy ha ribadito che il suo governo continuerà l'offensiva che ora, scaduto l'ultimatum di 72 ore, si appresta ad entrare nella fase finale con l'attacco al capoluogo della regione, Makallé. Secondo le stime dell’ONU, nelle tre settimane di conflitto vi sarebbero stati già centinaia di morti e circa 40 mila sfollati fuggiti in Sudan che non ha risorse per gestirli. Il dato è difficilmente confermabile con le telecomunicazioni
tagliate e gli accessi alla regione settentrionale al confine con l'Eritrea bloccati. La grande preoccupazione degli operatori umanitari Onu e Cicr riguarda il fatto che i rifornimenti per i soccorsi di emergenza nello Stato regionale etiope del Tigray stanno finendo e che nei campi profughi migliaia i bambini - molti dei quali senza genitori o parenti - sono a rischio. Incessante la preghiera e l'appello delle Chiese perchè questa guerra finisca al più presto. "Quando due elefanti lottano, quello che soffre di più è l’erba che pestano sotto i piedi", questa è l’immagine evocata da monsignor Musié Ghebreghiorghis, vescovo di Emdibir, in una nostra intervista del 24 novembre scorso. Speravamo in una condizione di maggiore democrazia nel Paese, invece non è così", lamenta monsignor Ghebreghiorghis. Anche il suo è un grido per la pace.
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