Papa Francesco: la preghiera per i malati e per chi li assiste in pandemia
Benedetta Capelli – Città del Vaticano
E’ alla Vergine di Lourdes che Francesco rivolge il suo sguardo per chiedere “la salute dell'anima e del corpo” per quanti soffrono anche a causa della pandemia e per dare “forza” a coloro che li assistono. Sempre in un tweet, il Papa esprime poi la sua vicinanza ai malati, specialmente i più poveri.
Francesco ricalca così i temi forti del Messaggio per la Giornata Mondiale del Malato, incentrato sulla cura e la vicinanza. Ricordando che la pandemia “ha fatto emergere tante inadeguatezze dei sistemi sanitari e carenze nell’assistenza alle persone malate”, il Papa ha evidenziato “la dedizione e la generosità di operatori sanitari, volontari, lavoratori e lavoratrici, sacerdoti, religiosi e religiose, che con professionalità, abnegazione, senso di responsabilità e amore per il prossimo hanno aiutato, curato, confortato e servito tanti malati e i loro familiari”. Li ha definiti “una schiera silenziosa di uomini e donne che hanno scelto di guardare quei volti, facendosi carico delle ferite di pazienti che sentivano prossimi in virtù della comune appartenenza alla famiglia umana”.
Due mesi al Pronto soccorso
Di volti ne ha visti molti anche suor Maria Chiara Ferrari, 37 anni, francescana alcantarina, che vive nel monastero di Maglie, vicino Lecce. Gli altri non potevano riconoscerla nella tuta anti-Covid ma lei ha segnato nella sua mente ogni malato che ha cercato di accudire nell’emergenza più totale. Come altri religiosi, non ha esitato ad indossare i panni di medico, accantonati da qualche anno, per dare quello che poteva nel servizio al Pronto soccorso dell’ospedale di Piacenza. Medico e suora insieme: un tutt’uno che non si può separare, due parti di un insieme che si rafforzano perché sperimentare il dolore di un paziente che ti lascia inevitabilmente rafforza la tua chiamata a vivere il servizio tra i fratelli in modo più vero e sentito.
Il Messaggio del Papa per la Giornata Mondiale del Malato è incentrato sul tema della relazione alla base della cura dei malati. Impossibile non pensare a questa pandemia che invece proprio la relazione ha complicato…
R. - Proprio in questo tempo in cui la relazione è stata così difficile, forse tutti ci siamo resi conto di quanto sia importante e basilare. Mi viene anche da dire che paradossalmente abbiamo sperimentato che è l'unica cosa che rimane. Dei malati sappiamo che forse la cosa più straziante è stata proprio la grande solitudine a cui erano anche costretti eppure la relazione è potuta andare oltre ad ogni confine. C’è stato tanto utilizzo dei mezzi di comunicazione che spesso consideriamo strumenti che tolgono tanto alla relazione a tu per tu o ad una vicinanza fisica ma dall’altro canto dicono in modo squisito che possiamo rinunciare a tutto tranne che al comunicare tra di noi, che questo ha saputo valicare i confini del distanziamento, i confini delle mura di un ospedale che erano inaccessibili per i famigliari. E insieme credo che tanti ammalati e il personale sanitario, soprattutto nel corso della prima emergenza sanitaria, abbiano tutti toccato con mano, nell’impotenza della medicina stessa, l’importanza della relazione cioè un “esserci” per l’altro.
Pensiamo ad un dottore o un’infermiera coperti dalla tuta anti-Covid che diventano presenze famigliari anche solo attraverso gli occhi che si cercano in un momento di così grave difficoltà. Papa Francesco parla di “balsamo” prezioso in un momento di malattia e di allontanamento dalla propria realtà…
R. – Esatto penso che ci siamo resi conto che tutto parla di noi perché siamo proprio fatti per questo, siamo nati per questo, siamo costitutivamente relazionali. Questo ci ha detto la pandemia e forse è venuto meno il darlo per scontato, sono venuti meno i metodi che in gran parte della storia abbiamo sempre ritenuto percorribili ma, secondo me, questo tempo ci ha detto che il desiderio di raggiungere l’altro, di comunicare è vitale anche nell’attraversare la sofferenza. La pandemia ce lo ha ricordato con forza.
C’è un passaggio del Messaggio del Papa che ti ha colpito in maniera particolare e senti particolarmente tuo?
R. – Sì quando il Papa parla degli operatori che hanno scelto il volto. Questa frase è molto bella. Nei primi mesi di pandemia c’è stata una creatività molto bella da parte di tutti perché in qualche modo tutti abbiamo scelto il volto. Se dovessi scegliere una professione a volte davanti all'insuccesso, davanti alla l'inutilità non la sceglieresti. Quando invece dall’altra parte c'è un volto, tutti, ognuno nel loro campo, siamo capaci di un di più. E questo credo sia il grande segreto, in particolare per noi cristiani che siamo raggiunti da un volto e che seguivamo un volto, ma anche per tutta l’umanità perché dice la verità che ogni uomo ha nel cuore. Quando dall’altra parte, in una situazione di dolore, di tragedia si intravede il volto questo ha la capacità di trasformare la sofferenza più grande. Ciò che è maledizione – come mi disse un sacerdote prima di partire – può diventare una vocazione, una chiamata. E credo che così ogni dolore si schiuda.
Il Papa parla della vicinanza, della consolazione di chi vive la malattia. Il cercare questo volto ti ha spinto a lasciare la tua quotidianità di francescana per ritornare nelle corsie di un ospedale?
R. - Sicuramente sì, io non ho lasciato la mia vita religiosa ma anzi l’ho vissuta fino in fondo in una grande normalità. Tante persone in quel momento si sono chieste cosa potevano fare e io sono un medico, ho una competenza e quello che potevo fare era metterla a disposizione. Così come ci sono state tante mie consorelle che avevano anche lo stesso desiderio di partire, infermiere e medici anche loro e quello che potevano fare, per esempio in quel momento della loro vita, era prendersi cura di tante nostre suore anziane che invece non avevano assistenza adeguata perché tutto era chiuso, non c’era personale. Quindi, così come i pasticceri hanno cucinato per gli ammalati e i medici, tutti siamo stati uomini e donne fino in fondo, intuendo che il dolore fa un servizio ad ognuno di noi, ci dice che il vero senso della nostra vita è di spenderla al di là della forma e della situazione. Questo credo vale per ognuno e che si fa con quello che si è e si può.
Della tua esperienza di medico cosa ricordi in particolare? C'è una storia in particolare che ti ha colpito e che porti ancora dentro di te come emblema del tuo servizio all’ospedale di Piacenza?
R. – Io sono arrivata nella primissima fase in cui l’ospedale di Piacenza era stato travolto dall’emergenza. Proprio perché si incontrano dei volti, le storie sono tantissime. Io mi porto soprattutto i colleghi e il personale in un esempio di solidarietà, di dedizione al proprio lavoro fino in fondo, un lavoro che dovevano semplicemente fare pur avendo, nella maggior parte dei casi, famigliari direttamente colpiti, pur essendo nel dolore. Questo è stato anche per me un insegnamento bellissimo e sono grata a tutti loro. Sicuramente mi porto il volto di tante persone male, nella loro grande disponibilità, nella loro grande fiducia nei nostri confronti e anche nella dignità con cui sono stati in una situazione che, nelle prime fasi, non era dignitosa per le condizioni precarie. E’ stato molto bello vedere come attraversavano tutto questo.
I pazienti non sapevano che tu fossi una suora, ma i tuoi colleghi sì. Ti hanno detto qualcosa di particolare quando ti hanno salutato?
R. - Sì, ho ricevuto tanta gratitudine perché, essendo partita di mia iniziativa, senza aspettare i bandi, le richieste, sono arrivata abbastanza presto. A loro ha colpito molto la gratuità di questo gesto in quelle primissime fasi in cui si sentivano tanto persi e abbandonati da un sistema sanitario che stava cercando di organizzarsi come meglio poteva. Ti riporto la frase di un dirigente sanitario, evidentemente molto scosso da quello che stava accadendo. Quando mi ha visto all’ufficio del personale mi ha detto che si era sentito abbandonato e, vedendomi, aveva detto che un aiuto poteva venire solo da chi non ci abbandona mai e cioè dal Signore. E questa frase è stata molto forte.
Come è nato in te il passaggio da medico a francescana, anche se il medico lo fai lo stesso nella tua veste di religiosa…
R. – Infatti, io vedo dietro lo stesso desiderio che a un certo punto della mia vita ha cominciato a muovermi, a dirigermi che era spendere la mia vita cercandone il senso più profondo e più bello. Questo si è tradotto nell’intraprendere questa professione e piano piano mi sono accorta di come ci fosse in realtà una fede più profonda e quando ho incontrato il Signore, un po’ alla volta dentro di me, prima un fascino e poi una consapevolezza ho voluto dedicargli tutta la vita perché lui potesse spenderla a servizio di tutti gli altri. Il passo è venuto da solo. Il Signore non ha mai separato queste due cose anzi il mio essere medico me l’ha sempre rimesso sulla strada sia nella scuola di specializzazione, sia nella formazione, sia nei modi più disparati per mettere a frutto questa competenza. E’ importante lasciare nelle sue mani i doni perché davvero sa come utilizzarli.
Come è stato tornare nel monastero dove vivi a Maglie dopo questa esperienza? Hai sentito un cambiamento? Ti senti proiettata verso qualcos'altro?
R. – Quei due mesi sono stati un’esperienza molto forte quasi un “Bignami” della vita, come ho sentito dire da tanti colleghi ma anche da tanti ammalati, credo di non di sentirmi in una novità di vita ma mi sento in una maggiore profondità. Un’altra cosa meravigliosa, che è un servizio che la sofferenza fa nelle nostre vite e che ho toccato con mano in questi due mesi, è che davvero il dolore ti riporta all’essenziale. Questo è uno di quei tesori che non vanno sprecati ma custoditi e questo me lo porto nella memoria, nella mia vita di consacrata, nella mia vita di religiosa, nella mia vita in questa terra dove mi trovo ora, nella mia famiglia religiosa e in quello che mi chiederà proprio il Signore più avanti. L’essenziale sono le cose che il Papa ci ricorda continuamente: il primato del Signore nella nostra vita, il primato del fratello, il primato della relazione e che abbiamo visto sono le uniche cose che restano.
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