La tragica fine ad Auschwitz dell'archeologo che ricompose il Laocoonte
Paolo Ondarza – Città del Vaticano
Per sopravvivere sarebbe bastato un sì, ma la sera del 15 ottobre 1943 il noto archeologo e mercante d’arte ebreo Ludwig Pollak, rifiutò l’offerta di riparare in Vaticano con la moglie Julia Süssmann e i due figli Wolfgang e Susanna. Un’automobile era pronta sotto la loro abitazione nel Palazzo Odescalchi di piazza Santi Apostoli per condurli in salvo Oltretevere. Quella rinuncia resta ancora oggi inspiegabile. All’alba del giorno seguente, passato alla storia come il "sabato nero”, l’intera famiglia fu prelevata insieme ai mille ebrei romani rastrellati dai nazisti. Fu prima condotta in arresto presso il Collegio militare sul Lungotevere, da lì in treno avrebbero raggiunto Bolzano e infine Auschwitz-Birkenau.
In quelle ore drammatiche e concitate l’allora direttore dei Musei Vaticani Bartolomeo Nogara tentò ogni strada per evitare il compimento di una tragedia annunciata: per suo tramite si attivò la Segreteria di Stato, poi scrisse all’Ambasciata tedesca. Fu tutto inutile. Partiti il 18 ottobre dalla stazione Tiburtina, dopo cinque terribili giorni di viaggio i Pollak trovarono la morte nelle camere a gas del lager nazisti.
Un talento straordinario
Nato a Praga nel 1868, Ludwig si era stabilito a Roma tra il 1893 e il 1894. Si distinse da subito per il suo incredibile fiuto in ambito antiquario legando il suo nome al riconoscimento nel Palazzo del conte Stroganoff di una copia dell’Atena di Mirone oggi alla Liebighaus di Francoforte. “Pollak combinava l'erudizione classica con un talento incredibilmente pratico", nota Tatjana Bartsch, viceresponsabile della fototeca della Biblioteca Hertziana che negli ultimi anni ha fortemente voluto l’installazione delle pietre d’inciampo in Piazza Santi Apostoli a Roma dove visse l’archeologo boemo per lunghi anni frequentatore della Biblioteca. “Pollak - prosegue Bartsch - era particolarmente dotato nel distinguere il vero dal falso e aveva i contatti giusti per vendere i reperti ai musei di tutto il mondo”.
Il braccio di Laocoonte
Amico di Sigmund Freud e attivo nel circuito di grandi collezionisti come John Pierpont Morgan, Grigorji Stroganoff, Giovanni Barracco, Wilhelm Bode, nel 1903 aveva acquistato presso uno scalpellino in via delle Sette Sale sul Colle Oppio un frammento scultoreo che subito riconobbe come il braccio di Laocoonte. Da quell’episodio nacque e si accrebbe negli anni l’amicizia con Nogara. La decisione di Pollak di donare il prezioso reperto ai Musei Vaticani insieme al ritrovamento di un prezioso vetro cristiano cimiteriale precedentemente sottratto al Museo Sacro della Biblioteca Vaticana gli valsero il riconoscimento della Gran Croce alla Cultura da parte di Papa Pio X. Fu il primo ebreo non convertito a ricevere una simile onorificenza.
L’amicizia con Bartolomeo Nogara
“Nogara aveva amicizia, ma soprattutto stima di Pollak perché era un mercante d’arte con uno spiccato senso etico”, ricorda a Vatican news Giandomenico Spinola, vice direttore artistico e scientifico dei Musei Vaticani, già responsabile del Dipartimento dell’Archeologia delle collezioni pontificie. “Fece scoperte di carattere prettamente archeologico, mentre da mercante d'arte acquistava e consigliava i più grandi governanti e collezionisti internazionali. Sono tante le opere di Pollak oggi esposte nei musei più importanti al mondo. Ai Musei Vaticani abbiamo il famoso braccio che Pollak non vide mai rimontato sulla scultura di Laocoonte. Poco prima del ’40 ebbe però la soddisfazione di vedere riconosciuta la sua scoperta dall’archeologo Vergara Caffarelli. Erano stati tanti i dubbi fino a quel momento nel corso dei vari sopralluoghi effettuati da Pollak e Nogara ai piedi della scultura nel Cortile Ottagono. Davanti al Laocoonte discutevano e ragionavano”.
Nel 1943 Pollak finì ad Auschwitz nonostante i tentativi messi in atto da Nogara per trarlo in salvo in Vaticano…
Sì, Pollak abitava a Palazzo Odescalchi a piazza Santi Apostoli. Lì c'era una macchina pronta a prendere lui e la sua famiglia, per poterli salvare tutti quanti. Probabilmente sottovalutò la minaccia. Pensò di essere uno studioso, un archeologo, un collezionista di scarso interesse per la Gestapo. Invece, pur settantacinquenne, mise a repentaglio la sua vita e quella della sua famiglia, nonostante fosse stato caldamente consigliato non solo da Nogara, ma anche da suoi amici tedeschi che lavoravano in ambasciata germanica presso la Santa Sede, di non correre il rischio di essere prelevato e portato via. Il 16 ottobre del '43 fu preso: lui e la sua famiglia. Furono condotti alla stazione Tiburtina. Dopo due giorni, partì per questo viaggio tremendo di cinque giorni verso Auschwitz e ad Auschwitz, fu subito portato nelle camere a gas e lì finì tragicamente. La Gestapo sequestrò anche i suoi diari, che il Museo Barracco conserva fino al 1933. Quelli relativi agli anni successivi sono spariti e ciò lascia intendere che forse contenevano scritti ritenuti scomodi dalla Gestapo. Forse Pollak era scomodo anche in ragione dei suoi numerosi legami con personaggi importanti.
Pollak fu il primo ebreo non convertito a ricevere l’onorificenza pontificia della Gran Croce in relazione alla sua scoperta del braccio di Laocoonte…
Sì, Pollak fu insignito della Gran Croce alla Cultura da Pio X per il ritrovamento, ma soprattutto per il dono che fece spontaneamente del braccio del Laocoonte ai Musei Vaticani. A Roma era un personaggio di cultura, criticò il nazismo, ma era poco interessato alla politica. Questo aspetto è sottolineato da Nogara nelle lettere inviate per cercare di far liberare lui e la sua famiglia. Ecco cosa si legge nella missiva destinata all’ambasciata tedesca e custodita nell’Archivio Storico dei Musei Vaticani: “Si fa osservare che il Comm. Pollak, abitante a Roma da quasi cinquant'anni non ha mai fatto parte di fazioni politiche. Si è dedicato alla professione di antiquario nelle forme più corrette e decorose, coltivando le discipline archeologiche con vero successo. (…) È naturale perciò che il sottoscritto, il quale è legato al Pollak da più di quarant'anni di amichevole consuetudine, s'interessi al caso e proponga che egli con le tre persone della famiglia, vengano restituite alla loro casa”. Evidentemente però con il sequestro dei suoi diari i nazisti avevano saputo qualcosa che lo identificava ai loro occhi come personaggio scomodo. Però di tutto questo noi non sappiamo nulla, perché questi ultimi diari non sono mai pervenuti a noi: sono stati distrutti e non sappiamo cosa contenessero.
Né sappiamo dove Pollak sarebbe stato ospitato in Vaticano. Sappiamo per certo che il Vaticano si attivò attraverso una rete di conventi, chiese, per dare asilo e accoglienza a tanti ebrei. Sappiamo anche che ai Musei Vaticani negli anni di guerra si custodirono beni artistici provenienti da tutta Italia ed Europa, si stiparono derrate alimentari per venire in soccorso della popolazione. Alcune significative foto d’epoca conservate nella Fototeca dei Musei Vaticani testimoniano l’allestimento di brandine nella Galleria Lapidaria. Un fatto questo che lascia ipotizzare che alcuni profughi vennero accolti qui?
Pollak sarebbe arrivato sicuramente qui in Vaticano come primo ricovero: o nella Galleria Lapidaria o nel Museo Chiaramonti. Avrebbe avuto un ricovero fintanto che le condizioni esterne non avessero permesso un suo ricovero più lungo in un monastero, come è capitato ad Hermine Speier, altra archeologa ebrea che fu ricoverata in un monastero presso le catacombe di Priscilla. Lei era una convertita, ma questo non cambia nulla sull’apprezzamento sia personale sia scientifico da parte del Vaticano. È altrettanto vero che il Vaticano era un luogo sicuro al momento, ma non sicuro in assoluto, a tal punto che anche il Papa temette di essere arrestato a sua volta e aveva persino ipotizzato un conclave a Lisbona per il suo successore. Quindi anche il Vaticano non era un luogo sicuro. La dispersione dei ricoverati in altri centri religiosi di Roma serviva proprio ad evitare di avere qui in Vaticano, un nucleo che potesse risultare una protezione evidente offerta dal Papa alle persone ricercate dalla Gestapo. La dispersione dei profughi poteva renderli meno visibili.
A Pollak non fu chiesta la conversione?
A Pollak non fu mai chiesta la conversione. Lui, anzi, pare che cercasse di convincere anche la Speier a rientrare in un ambito religioso ebraico. Ma la Speier non è mai stata praticante, quindi non era interessata a fare questo passaggio. Pollak viceversa non trovava logico, nè giusto dover cambiare la sua fede per convenienza.
Ricordiamo Pollak così come ricordiamo le tante vittime della Shoah. Non vogliamo dimenticarli e non solo nel giorno della memoria. In un senso più esteso quanto accaduto a Pollak cosa viene a dire ai nostri giorni?
Siamo abituati nel nostro quotidiano a vivere liberamente. La libertà è nel fare le cose di tutti i giorni. Per Pollak la libertà era andare a studiare liberamente all’Istituto Germanico (dal quale fu espulso così come dalla Biblioteca Hertziana e da altri istituti culturali romani. ndr), andare a studiare liberamente i monumenti e le collezioni che gli interessavano, parlare di cultura e commerciare opere. Il pensiero va a chi vive la guerra anche oggi: si alza, probabilmente con la speranza di portare i figli a scuola, la speranza di andare a fare la spesa per mangiare e la speranza di tornare nel proprio letto per dormire serenamente. Invece la straordinarietà della guerra impedisce questo pensiero e ci porta a tragedie che nel quotidiano non possono che essere incomprensibili.
La deportazione ad Auschwitz
“Gli Arolsen Archives” – afferma Federica De Giambattista, Dottoressa di ricerca in Storia dell'Arte, Università Sapienza di Roma ed esperta di Pollak, “conservano tredici documenti che confermano la deportazione dei quattro membri della famiglia Pollak in Germania con un «sonderzug», un trasporto speciale. Julia Süssmann fu assegnata al campo di Birkenau dove morì poco dopo, mentre Ludwig, Susanna e Wolfgang perirono ad Auschwitz. La mancanza nei documenti superstiti dei nomi delle persone ricercate è spesso dovuta al fatto che si tratta di fonti incomplete perché gran parte sono state distrutte dalle S.S. prima della liberazione o dello sgombero dei campi di concentramento di fronte all’avanzata delle truppe alleate e dell’esercito russo e questa è con ogni probabilità la sorte delle carte che devono aver registrato l’ingresso e il decesso dei Pollak nel campo di concentramento.”
Gli ebrei nascosti in Vaticano
Se la sera del 15 ottobre 1943 i Pollak fossero saliti a bordo dell’automobile che li attendeva in Piazza Santi Apostoli sarebbero probabilmente scampati alla morte nei lager. Avrebbero trovato riparo in edifici della Chiesa Cattolica come tanti ebrei di cui si ha memoria storica. “L’Archivio Apostolico Vaticano – spiega suor Grazia Loparco, docente di Storia della Chiesa alla Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione Auxilium - conserva, tra l’altro, documentazione su numerosi ebrei nascosti, come altri ricercati, in edifici alle dirette dipendenze della Santa Sede, oltre al Laterano, a San Paolo fuori le mura, al Pontificio Seminario Lombardo. Proprio nel complesso vaticano, tra altri ricercati che avevano trovato rifugio, nel maggio ’44 si dichiarava che una quarantina risultavano ebrei, di cui una quindicina erano battezzati”.
“A volte – precisa la religiosa - la richiesta aveva raggiunto la Segreteria di Stato e il consenso era partito dai massimi livelli, come è già noto; in altri casi l’iniziativa di rispondere alle domande fu privata. Vari ebrei avevano pagato diretti referenti o dipendenti, per essere nascosti, all’insaputa dei superiori ecclesiastici. Le informazioni provenienti, poi, dal Palazzo delle Congregazioni in San Callisto relativa al periodo dicembre 1943 - 4 giugno ’44, come pure dal Pontificio Collegio dei sacerdoti per l’emigrazione italiana, indicano che in quelle sedi si richiedeva normalmente una raccomandazione o un consenso della Segreteria di Stato, prima di accettare clandestini. Lo stesso, quasi sempre, avveniva per altri edifici di religiosi vicini al colonnato di S. Pietro”.
L’operazione segreta sostenuta da Pio XII
Furono probabilmente circa 4400 gli ebrei di Roma, quasi metà dell’intera Comunità Ebraica della Capitale all’epoca, che trovarono riparo in chiese, conventi, istituti religiosi durante la persecuzione nazista scampando al terribile rastrellamento del 16 ottobre 1943, lungo oltre otto interminabili ore, come pure agli arresti successivi. D’altronde che Pio XII, a lungo vilipeso come “Papa di Hitler” e accusato di non aver pubblicamente condannato la Shoah, fosse informato e avesse autorizzato l’ospitalità in Vaticano, nei conventi e nei monasteri europei è documentato da ricerche e studi. Una tra le più recenti è quella di Gordon Thomas, morto nel 2017, intitolata “The Pope’s Jews, The Vatican’s Secret Plan to Save Jews from Nazis”. In questo testo si attesta che Pacelli sovrintese a un’operazione segreta con nomi in codice e documenti falsi per sacerdoti che rischiavano la propria vita per dare rifugio agli ebrei, alcuni dei quali divenuti persino cittadini vaticani.
Inoltre Gordon Thomas, citando fonti primarie, dimostra che il sacerdote irlandese Hugh O’Flaherty a cui si deve il salvataggio di 6500 ebrei, agì con la cooperazione di Pio XII. Non a caso vari giornali ebrei in Gran Bretagna e Stati Uniti elogiarono l’impegno del Pontefice. L’eco di queste notizie infastidì Hitler al punto che marchiò il Pontefice come “amico degli ebrei”.
Alla vicenda di Ludwig Pollak, all’amicizia con Bartolomeo Nogara e al ritrovamento del braccio del Laocoonte prossimamente Vatican News dedicherà una puntata della serie video “I segreti dei Musei Vaticani – Celata Pulchritudo” le cui riprese sono in fase di registrazione in queste settimane.
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