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Abusi, Chiara Griffini: dalla CEI lavoro capillare, aiutiamo le vittime e le loro famiglie

La presidente del Servizio Nazionale per la Tutela dei minori della Conferenza Episcopale italiana tra i partecipanti alla conferenza "Safeguarding in the Catholic Church in Europe" in corso a Roma: "Facciamo rete e pungoliamo per procedure di giustizia nella Chiesa più immediate. La non tempestività nelle risposte alle segnalazioni ha alimentato il dolore". Lavoro di cura anche per le famiglie: per alcune senso di colpa permanente, cerchiamo di ritessere la fiducia

Salvatore Cernuzio – Città del Vaticano

“Una professionista seria”, con “una grande capacità di ascolto delle vittime”. Così a maggio il cardinale Matteo Zuppi, presidente della CEI, presentava la psicologa Chiara Griffini come nuovo presidente del Servizio Nazionale per la Tutela dei minori della Conferenza Episcopale italiana. Una donna, una laica, una nomina senza precedenti che ha comportato anche una revisione dello statuto. In questa veste Griffini rappresenta la Chiesa italiana alla conferenza Safeguarding in the Catholic Church in Europe, promossa dalla Pontificia Commissione Tutela minorum in corso a Roma. Insieme ad esperti di oltre 20 Paesi, Griffini condivide le best practices avviate dai vescovi italiani dal 2019, con un forte contributo di laici, ma anche la propria esperienza personale, a cominciare dal contatto con le vittime e le loro famiglie. Soprattutto le famiglie, quelle che - dice ai media vaticani, non nascondendo la propria commozione - hanno subito anch’esse “un abuso” vedendo il figlio vittime di una persona a cui loro stessi lo avevano affidato. Famiglie che, però, hanno mostrato grande “dignità” nella lotta per la verità e la giustizia.

Dottoressa Griffini, quale contributo porta come Chiesa italiana in questo contesto molto variegato della conferenza con le Chiese d’Europa?

Portiamo il contributo della rete capillare avviata a partire dal 2019. A dire il vero, la Chiesa italiana ha avvertito un anno prima dell’uscita delle linee guida la necessità di dotarsi di una rete capillare di safeguarding. In Italia ci sono 226 diocesi, quindi un’azione di tutela efficace deve avere necessariamente la caratteristica della capillarità. E infatti poi, con l’introduzione delle linee guida, si è formalizzata la costituzione in tutte le diocesi di servizi diocesani per la tutela. Dal 2020 al 2022, poi, sono state formate 24 mila persone in materia di safeguarding. E tenendo conto che tra il 2020 e il 2021 eravamo in piena pandemia, con il blocco di tutte le attività pastorali, è certamente un risultato importante. Chiaramente questo non ci deve far sedere, anzi diventa una responsabilità ulteriore perché la formazione diventi permanente. Inoltre c’è un altro aspetto importante…

Quale?

A differenza di altre Conferenze Episcopali, la nostra ha un punto importante che è la collaborazione con la società civile grazie alla presenza in un osservatorio di natura governativa. Dal 2022 la CEI è invitato permanente all’Osservatorio contro la pedofilia e la pedopornografia che ha sede presso il Ministero della Famiglia e delle Pari opportunità. Questo apre l’azione della Chiesa da un’azione prioritariamente interna, tesa a generare un ambiente sicuro e a riparare la ferita, ad un’azione di safeguarding universale. Oggi non esiste più il minore della parrocchia, il minore dello sport, il minore della scuola, ma c’è il minore che connette tutti questi diversi mondi, sia nel reale che nel virtuale.

Quindi un ulteriore passo avanti nel rapporto tra Chiesa, società civile e politica nella lotta agli abusi…

Direi proprio di sì, perché l’Osservatorio redige il Piano nazionale di contrasto e chiaramente la Conferenza Episcopale italiana come invitato permanente può lavorare sulle istanze che il piano arriva a definire. La Chiesa intercetta un numero importante di minori e di famiglie e uno degli obiettivi del nuovo Pano nazionale è proprio quello di un’azione sempre più capillare di sensibilizzazione della famiglia su questi temi. Sappiamo che nel nostro Paese l’abuso non è un fenomeno che si verifica solo all’interno della Chiesa, ma in più contesti. Per la Chiesa diventa allora importante mettersi in rete con altre istituzioni per dare il proprio contributo a creare ambienti sicuri ovunque per i minori, che sono il futuro del nostro Paese e della Chiesa.

Quale contributo stanno apportando i laici al vostro lavoro?

Un contributo determinante. Nelle Diocesi la maggioranza dei referenti dei servizi e dei centri di ascolto sono laici e per ben 2/3 donne. Il contributo è professionale, di alta qualità, multidisciplinare. È lo sguardo di professionisti che operano nella società civile e mettono le loro competenze e sensibilità a servizio della Chiesa. Competenze dalla sfera giuridica, civile, canonistica, educativa, psicologica, medica, dentro a un approccio integrato e propositivo al tema. Ecco, l’altra caratteristica “italiana” è proprio questo approccio propositivo e cioè una tutela che non è solo un insieme di prescrizioni ma mira a promuovere il benessere del minore, dell’adulto che se ne prende cura e di un’intera comunità. È importante infatti riconoscere che il minore è sempre figlio di qualcuno, quindi c’è un movimento di fiducia e la Chiesa non può permettersi assolutamente di tradire questa fiducia né nei confronti dei minori, né di tutti gli adulti.

“Ritessere la fiducia” è infatti il tema della quarta Giornata nazionale del 18 novembre di preghiera della Chiesa italiana per vittime e sopravvissuti… A tal proposito, abbiamo parlato di formazione, sensibilizzazione, proposte, ma per le vittime, con le vittime, sulle vittime quale tipo di lavoro c’è stato? Alcuni gruppi proprio di vittime hanno criticato in passato la CEI dicendo che non ha fatto abbastanza.

Certamente il lavoro che è stato fatto è un lavoro di piccoli passi, concreti e possibilmente verificabili. Riconosciamo che c’è ancora da fare, siamo solo agli inizi. Però voglio citare un piccolo esempio importante, relativo proprio alla Giornata del 18 novembre: non volevamo che in questo giorno fossero altri a parlare delle vittime, ma che fossero le vittime stesse ad avere voce. Perciò le riflessioni sono state frutto di un percorso di cura ecclesiale e spirituale pensato proprio per le vittime e i loro familiari. Ritengo un piccolo frutto il fatto che in questa Giornata la voce sia veramente data a loro che hanno espresso chiaramente il bisogno e il desiderio di essere riconosciuti come parte della comunità, a cui possono dare qualcosa di buono perché ciò che hanno vissuto non accada mai più e perché. si mettano in atto misure adeguate di riparazione.

Un altro aspetto importante constatato attraverso questo lavoro che è diverso prendersi cura di una vittima “primaria", cioè che ha subito in prima persona un abuso, rispetto a una vittima secondaria, cioè il genitore che ha affidato il proprio figlio a qualcuno e che quindi porta dentro di sé un senso di colpa permanente. Avvertiamo anche la responsabilità di affiancare questi genitori in questa ferita che continua, anche oltre ogni condanna giuridica. In più vorrei aggiungere che certamente le modalità non tempestive con cui si sono tratte le segnalazioni hanno alimentato il dolore, perché non attente alle persone ferite e al loro bisogno di essere credute e prese in seria considerazione. La consapevolezza di questo è un pungolo per imparare nell’oggi a intraprendere strade adeguate per la verità e la giustizia.

C’è una storia, una vicenda o un caso che l’ha colpita particolarmente in questi anni di lavoro?

Guardi, è quello che dicevo poco fa: genitori di vittime che raccontano di aver affidato essi stessi i propri figli a una figura per loro importante, di riferimento. In quel caso c’è stato un duplice abuso: un abuso spirituale sui genitori e un abuso sessuale sui figli. Questo mi ha colpito particolarmente, che un’intera famiglia è stata, di fatto, abusata. È una delle cose più tremende. Lascio a voi pensare cosa può voler dire per una famiglia ritessere una fiducia doppiamente lacerata. Anche se, ci tengo a sottolinearlo, sono sempre rimasta impressionata dalla grande dignità mostrata da queste persone, unita al loro continuare ad avere fede e lavorare con la Chiesa da dentro per la tutela.

Dai lavori della Conferenza con i rappresentanti delle Chiese di tutta Europa, quale bagaglio porta a casa? Cosa ha imparato, cosa ha visto, cosa l’ha incoraggiata nel suo lavoro?

Mi hanno incoraggiato molto i progetti di riparazione in atto in alcune Chiese locali europee in cui le vittime diventano attori per la cura spirituale ed ecclesiale. L’altro aspetto è quello di pungolare perché le procedure di giustizia all’interno della Chiesa rispondano sempre di più. Un tema, questo, emerso anche nel confronto con il Dicastero per la Dottrina della Fede. Un ultimo elemento è la dimensione della rete, dell’incontro tra noi: l’abuso fa incontrare per distruggere, qui invece abbiamo tessuto reti per il bene perché, pur nelle differenze di ogni Stato, ci sono ricorrenze. Poi, mi sia consentito dirlo, bisognerebbe forse pensare a una presenza della Chiesa in Europa che sia maggiormente incidente sulla legislazione dell’Unione europea. In questo credo che possiamo davvero fare la differenza.

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14 novembre 2024, 17:20