Il cardinale Parolin visita l'ospedale pediatrico Okhmatdyt a Kyiv durante il suo viaggio in Ucraina del luglio 2024 Il cardinale Parolin visita l'ospedale pediatrico Okhmatdyt a Kyiv durante il suo viaggio in Ucraina del luglio 2024

Parolin: “Non arrendiamoci all’ineluttabilità della guerra”

Intervista con il cardinale Segretario di Stato nel millesimo giorno dall’aggressione militare contro l’Ucraina

Andrea Tornielli

«Non possiamo arrenderci all’ineluttabilità della guerra! Spero vivamente che questo giorno triste, il millesimo dall’inizio della guerra su ampia scala contro l’Ucraina provochi un sussulto di responsabilità in tutti e in particolare in coloro che possono fermare la carneficina in atto». Lo afferma il cardinale Pietro Parolin in un colloquio con i media vaticani alla vigilia della partenza per il G20 in Brasile. Il Segretario di Stato lo scorso luglio si era recato in Ucraina, visitando Lviv, Odessa e Kyiv.

Qual è il suo stato d’animo in questa occasione?

Non può che essere di profonda tristezza, perché non ci si può abituare o rimanere indifferenti di fronte alle notizie che ogni giorno ci raggiungono e ci parlano di morte e distruzione. L’Ucraina è un Paese aggredito e martirizzato, che assiste al sacrificio di intere generazioni di uomini, giovani e meno giovani, strappati allo studio, al lavoro e alla famiglia per essere inviati al fronte; sperimenta il dramma di chi vede morire sotto le bombe o sotto i colpi dei droni i propri cari; vede la sofferenza di chi ha perso la casa o comunque vive in condizioni di estrema precarietà a causa della guerra.

Che cosa possiamo fare, noi, per aiutare l’Ucraina?

Innanzitutto, come credenti cristiani, possiamo e dobbiamo pregare. Implorare Dio affinché converta il cuore dei “signori della guerra”. Dobbiamo continuare a chiedere l’intercessione di Maria, Madre particolarmente venerata in quelle terre che hanno ricevuto il battesimo molti secoli fa. In secondo luogo possiamo impegnarci per non far mai mancare la nostra solidarietà a chi soffre, a chi ha necessità di cure, a chi patisce il freddo, a chi ha bisogno di tutto. La Chiesa in Ucraina sta facendo tanto per la popolazione condividendo giorno dopo giorno il destino di un Paese in guerra. In terzo luogo possiamo far sentire la nostra voce, come comunità, come popolo, per chiedere pace. Possiamo far sentire il nostro grido, chiedere che le istanze di pace vengano ascoltate, prese in considerazione. Possiamo dire il nostro no alla guerra, alla folle corsa al riarmo che Papa Francesco continua a denunciare. È comprensibile un senso di impotenza di fronte a quanto sta accadendo, ma è ancora più vero che insieme, come una sola famiglia umana, possiamo fare molto.

Di che cosa c’è bisogno oggi per far cessare almeno il fragore delle armi?

È giusto dire “far cessare almeno il fragore delle armi”. Perché per negoziare una pace giusta serve tempo, mentre una tregua condivisa da tutte le parti in causa – in primis resa possibile dalla Russia che ha iniziato il conflitto e che dovrebbe cessare l’aggressione - potrebbe avvenire anche nello spazio di poche ore, se soltanto la si volesse. Come ripete spesso il Santo Padre, servono uomini che scommettano sulla pace e non sulla guerra, uomini che si rendano conto dell’enorme responsabilità rappresentata dal continuare un conflitto dagli esiti sinistri non solo per l’Ucraina ma anche per l’intera Europa e per tutto il mondo. Una guerra che rischia di trascinarci in uno scontro nucleare, cioè verso l’abisso. La Santa Sede cerca di fare il possibile, di mantenere canali di dialogo con tutti, ma si ha come la sensazione di essere tornati indietro con l’orologio della storia. L’azione diplomatica, la pazienza del dialogo, la creatività della trattativa sembrano scomparsi, retaggi del passato. E a farne le spese sono le vittime innocenti. La guerra ruba il futuro a generazioni di bambini e di giovani, crea divisioni, alimenta l’odio. Quanto bisogno ci sarebbe di statisti dallo sguardo lungimirante, capaci di gesti coraggiosi di umiltà, in grado di pensare al bene dei loro popoli. Quarant’anni fa, a Roma, veniva siglato il Trattato di pace tra Argentina e Cile che risolveva la contesa per il canale del Beagle con la mediazione della Santa Sede. Pochi anni prima i due Paesi erano ormai arrivati alla soglia della guerra, con gli eserciti già mobilitati. Tutto si fermò grazie a Dio: tante vite vennero risparmiate, tante lacrime furono evitate. Perché non è possibile ritrovare questo spirito anche oggi, nel cuore dell’Europa?

Crede ci sia spazio per un negoziato oggi?

Anche se i segnali non sono positivi, un negoziato è sempre possibile oltre che auspicabile per tutti coloro che tengono nella giusta considerazione la sacralità della vita umana. Negoziare non è un segno di debolezza ma di coraggio. Quella delle “oneste trattative” e degli “onorevoli compromessi”, e mi riferisco qui alle parole di Papa Francesco nel recente viaggio in Lussemburgo e Belgio, quella del dialogo è la via maestra che dovrebbero percorrere coloro che hanno in mano i destini dei popoli, Un dialogo che si può fare solo quando c’è un minimo di fiducia tra le parti. E che richiede la buona fede di tutti. Se non ci si fida, almeno in minimo grado, dell’altro e se non si agisce con sincerità, tutto rimane bloccato. Così in Ucraina, in Terra Santa come in tante altre aree del mondo si continua a combattere e a morire. Non possiamo arrenderci all’ineluttabilità della guerra! Spero vivamente che questo giorno triste, il millesimo dallo scoppio dell’aggressione militare contro l’Ucraina, provochi un sussulto di responsabilità in tutti e in particolare in coloro che possono fermare la carneficina in atto.

 

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18 novembre 2024, 14:00