Congo ferito e sfruttato, il Papa: no a odio e avidità, siate miti testimoni di pace
Gabriella Ceraso – Città del Vaticano
"Porteremo Kinshasa a San Pietro e lì celebreremo con tutti i congolesi romani, che sono tanti!". La promessa di Francesco il 13 giugno scorso, in risposta alla decisione sofferta di rinviare il viaggio in Africa per motivi di salute, si avvera oggi. È il 3 luglio, il Papa era atteso nella capitale della Repubblica Democratica del Congo dove avrebbe presieduto la Messa. Al suo posto questa mattina, proprio lì a Kinshasa, a portare affetto e vicinanza tangibili, c’è il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, ma l’abbraccio agli amati popoli africani, ai congolesi in particolare ma anche ai sud sudanesi che dovevano essere visitati dal Pontefice, si realizza comunque in San Pietro.( Ascolta il servizio con la voce del Papa)
Colori, suoni, preghiere del rito zairese – dall’antico nome della Repubblica Democratica del Congo – l’unico rito inculturato della Chiesa latina, riempiono la Basilica vaticana di un clima festoso. C’è la Chorale Bondeko, ci sono le quattro lingue nazionali nelle letture e nelle preghiere rivolte anche ai governanti, ci sono gli abiti colorati, le danze, i suoni degli strumenti tradizionali.
La riconciliazione è possibile
Il respiro di un’Africa ricca, ma troppo spesso ferita da violenza, odio e avidità è anche nelle parole del Papa, che nell’omelia prega per la pace nel Paese e perché i cristiani ne siano testimoni:
Oggi, cari fratelli e sorelle, preghiamo per la pace e la riconciliazione nella vostra patria, nella Repubblica Democratica del Congo, tanto ferita e sfruttata. Ci uniamo alle Messe celebrate nel Paese secondo questa intenzione e preghiamo perché i cristiani siano testimoni di pace, capaci di superare ogni sentimento di astio, ogni sentimento di vendetta, superare la tentazione che la riconciliazione non sia possibile, ogni attaccamento malsano al proprio gruppo che porta a disprezzare gli altri.
Le parole dell’omelia - aperta e chiusa in lingua africana da Francesco in alternanza con l'assemblea che applaude e manifesta tutta la gioia per questa celebrazione - nascono dalla riflessione sull’odierno Vangelo di Luca (10,1-12.17-20) e sul modo in cui Gesù designa e invia i discepoli, “a due a due davanti a sé”, in una missione che - afferma il Papa - presenta tre caratteristiche anzi, tre “sorprese“ che ci stupiscono: l’equipaggiamento, il messaggio e lo stile che dicono a tutti i cristiani come vivere e come costruire un mondo di pace.
Non c'è missione senza comunione
Il presupposto è che “da cristiani non possiamo accontentarci di vivacchiare nella mediocrità" - una "malattia di tanti cristiani", un "pericolo" - "facendo i conti con le nostre opportunità e convenienze”. Siamo tutti missionari di Gesù. E se pensiamo di essere inadeguati, partiamo dall’equipaggiamento che Gesù richiede ai suoi discepoli, non fatto di “strutture, soldi e mezzi”, perché “più siamo liberi e semplici, piccoli e umili, più lo Spirito Santo guida la missione”:
Fratelli, sorelle, non confidiamo nelle ricchezze e non temiamo le nostre povertà, materiali e umane. Più siamo liberi e semplici, piccoli e umili, più lo Spirito Santo guida la missione e ci fa protagonisti delle sue meraviglie. Lasciare posto allo Spirito Santo. Lasciare spazio. Per Cristo l’equipaggiamento fondamentale è un altro: il fratello. Curioso questo. «Li inviò a due a due», dice il Vangelo. Non da soli, non per conto proprio, sempre con il fratello accanto. Mai senza il fratello, perché non c’è missione senza comunione.
Un cristiano porta sempre la pace
La seconda sorpresa della missione è il messaggio, racchiuso nelle poche frasi di Gesù, che ai suoi chiede di farsi ambasciatori di pace e di annunciare che il “Regno di Dio è vicino”. I cristiani - fa notare Francesco - non si riconoscono per “discorsi ben articolati”, ma perché "si arragiano" pur di portare la pace, perché Cristo è la pace. Questo è "il segno distintivo":
Se invece diffondiamo chiacchiere e sospetti, creiamo divisioni, ostacoliamo la comunione o mettiamo la nostra appartenenza davanti a tutto, non agiamo in nome di Gesù. Chi fomenta rancore, incita l’odio, scavalca gli altri, non lavora per Gesù, non porta la pace.
Da qui l’appello rivolto alla Repubblica Democratica del Congo a superare la tentazione di astio e vendetta, e ai cristiani di farsi promotori della pace, a partire dal proprio cuore, per poter trasformare la società e il Paese:
Se vivi la sua pace, Gesù arriva e la tua famiglia, la tua società cambiano. Cambiano se per prima cosa il tuo cuore non è in guerra, non è armato di risentimento e di rabbia, non è diviso, doppio non è falso. Mettere pace e ordine nel proprio cuore, disinnescare l’avidità, spegnere l’odio e il rancore, fuggire la corruzione, fuggire gli imbrogli e le furberie: ecco da dove inizia la pace.
Se Dio è con noi, il mondo non è un campo di battaglia
I discepoli di Gesù e i cristiani tutti sono anche annunciatori della vicinanza del Regno di Dio, e questo – afferma il Papa guardando ancora al Vangelo di Luca e al mondo di oggi – è “essenziale”, perché è da qui che nascono “speranza” e “conversione”, “dal credere che Dio è vicino e veglia su di noi: è il Padre di tutti noi, che ci vuole tutti fratelli e sorelle”.
Se noi viviamo sotto questo sguardo, il mondo non sarà più un campo di battaglia, ma un giardino di pace; la storia non sarà corsa per arrivare primi, ma un pellegrinaggio. Tutto ciò – ricordiamolo bene – non richiede grandi discorsi, ma poche parole e tanta testimonianza.
Nella Repubblica Democratica del Congo, vincere il male dell’avidità
L’ultima sorpresa della missione cui siamo tutti chiamati, riguarda il nostro “stile”. Ancora una volta lo sguardo del Papa va alla Repubblica Democratica del Congo, che avrebbe dovuto visitare proprio tra il 2 e il 5 luglio. Se Gesù - nota Francesco - manda i suoi discepoli nel mondo come “agnelli in mezzo ai lupi”, significa che ci vuole privi di “supremazia e sopraffazione, di avidità, di possesso”:
Chi vive da agnello non aggredisce, non è vorace: sta nel gregge, con gli altri, e trova sicurezza nel suo Pastore, non nella forza o nell’arroganza, non nell’avidità di soldi e di beni che tanto male causa anche alla Repubblica Democratica del Congo. Il discepolo di Gesù respinge la violenza, non fa male a nessuno è un pacifico, ama tutti. E se ciò gli sembra perdente, guarda il suo Pastore, Gesù, l’Agnello di Dio che così ha vinto il mondo, sulla croce. Così ha vinto il mondo.
Dunque, rifiutare lo spirito del mondo che "fa le guerre, che distrugge" e invocare il Signore – sono le parole conclusive del Papa – affinchè ci aiuti ad essere “missionari oggi, andando in compagnia del fratello e della sorella; avendo sulle labbra la pace e la vicinanza di Dio; portando nel cuore la mitezza e la bontà di Gesù”.
Grazie mille! Il saluto di suor Rita
Lo sguardo paterno di Francesco verso l’Africa e in particolare verso la popolazione della Repubblica Democratica del Congo, la sua preoccupazione e il suo appello alla pace, muovono, al termine della celebrazione, le parole di ringraziamento di suor Rita Mboshu Kongo. La teologa congolese della Congregazione delle Figlie di Maria SS. Corredentrice pronuncia il suo ”grazie” nelle quattro lingue nazionali non prima di aver ricordato con quanto affetto il Papa ha già celebrato una prima Messa in rito congolese il 1 dicembre 2019 , e dopo aver rinnovato la speranza che il tanto desiderato viaggio in Africa possa svolgersi, là dove le popolazioni lo attendono “a braccia aperte” e continuano a pregare pe la sua salute.
Ultimo aggiornamento ore 10.50
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