Processo vaticano, la parola agli avvocati delle difese
Barbara Castelli - Città del Vaticano
“L’accusa come tutti sappiamo è un’ipotesi, e in quanto tale va verificata. E devo dire che – nel caso di specie – l’accusa si presenta abbastanza inconclusa in fatto e includente in diritto”. Lo ha sottolineato l’avvocato Filippo Dinacci, nel corso della settantunesima udienza del procedimento penale Protocollo 45/19. Il legale, insieme con Ugo Dinacci, difende la posizione di René Brülhart, già presidente dell’Autorità di informazione finanziaria (Aif). Su quest’ultimo, così come pure su Tommaso di Ruzza, già direttore della medesima Istituzione, pendono quattro capi di imputazione, riconducibili all’abuso d’ufficio. “Richiedo l’assoluzione in via principale perché il fatto non sussiste – ha detto, a tal proposito, il difensore – e in via subordinata perché il fatto non costituisce reato”.
Il principio di mutua collaborazione tra le Istituzioni della Curia Romana
I due legali, nel corso della mattina, hanno “ripercorso cronologicamente quanto accaduto per restituire oggettività ai fatti”, “fatti trascurati o non considerati adeguatamente”, cercando di scardinare le accuse, secondo cui i vertici dell’Aif, oggi Autorità di supervisione e informazione finanziaria (Asif), in realtà non hanno favorito la consumazione dell’estorsione omettendo di intervenire per far conseguire a Gianluigi Torzi un indebito vantaggio. “Le Istituzioni in Vaticano – ha sottolineato Filippo Dinacci, parlando anche di “ricostruzioni documentalmente sconfessate” – hanno un obbligo funzionale ad agire con una unità di intenti; quindi, abbiamo anche una forma di paradosso dell’accusa che contesta un abuso d’ufficio sul presupposto che i pubblici ufficiali accusati avrebbero osservato quel dovere di unità operativa che è imposta dalla legge fondamentale dello Stato”.
La “generosa richiesta di punizione” che è stata formulata nei confronti di René Brülhart, precedentemente vice-presidente del gruppo Egmont, ha proseguito il legale, “si fonda sull’omesso presupposto” che lo stesso sia “intervenuto su richiesta della Segretaria di Stato”; oltre al fatto che “nessuna emergenza dimostra un rapporto con Torzi e nessuna emergenza testimonia una volontà di favorirlo”. “Il Vaticano – ha aggiunto Filippo Dinacci – senza l’imputato, sarebbe ancora tra i Paesi ad alto rischio di finanza”, “non sarebbe mai stata sdoganata una trasparenza finanziaria”.
Cronistoria
René Brülhart, secondo la dettagliata cronistoria formulata da Ugo Dinacci, fu messo a conoscenza delle “problematiche” di Londra da monsignor Edgar Peña Parra, sostituto per gli Affari Generali della Segreteria di Stato, il 7 marzo 2019, durante un’udienza, con specifico riferimento alla posizione contrattuale debole dell’Istituzione, alla necessita di non perdere la titolarità dell’immobile di Sloane Avenue, per evitare ulteriori danni finanziari, e al rischio reputazionale. Sin da subito, è stato detto, l’imputato avrebbe avviato “un’attività di intelligence”, richiedendo anche tutta la documentazione necessaria per avere una visione completa della questione, al “fine di fornire il massimo supporto alla Segretaria di Stato”. Pur non avendo “alcun potere di vigilanza” sulla stessa, né tantomeno competenze su “eventuali segnalazioni per attività sospette”, il già presidente dell’Aif allertò, comunque, le Unità di Informazione Finanziaria (Uif) internazionali sulla vicenda del palazzo di Londra, si mise in contatto con il britannico National Crime Agency e si confrontò con lo studio legale Mishcon de Reya, che seguiva la vicenda per la stessa Segretaria di Stato. Pur consigliando la parte a non procedere, alla fine, è stato rimarcato, fu deciso di andare avanti secondo una “linea stragiudiziale”.
L’Aif ha sempre sostenuto gli interessi della Segretaria di Stato
Roberto Borgogno e Angela Valente hanno, invece, presentato la loro prospettiva rispetto alla posizione di Tommaso Di Ruzza. A loro volta, hanno rimarcato la “pena severa” richiesta “per la gravità della contestazione”: un’accusa ritenuta “inverosimile”. “Chi conosce il dottor Di Ruzza – ha detto il primo avvocato – sa che egli ha dedicato la propria vita al servizio della Santa Sede, e si è dedicato in maniera costante allo sviluppo dell’attività di antiriciclaggio dell’Aif”, oltre al fatto che non ci sono prove che avvalorano “contatti e scambi di qualsiasi tipo, tanto meno di natura patrimoniale, tra Di Ruzza e Torzi e Mincione”.
Dopo aver dato ampio spazio alla vicenda della richiesta della Segreteria di Stato all’Istituto per le Opere di Religione di un finanziamento di 150 milioni di euro per rinegoziare l’oneroso mutuo che gravava sul palazzo londinese, i legali hanno poi, a più riprese, ricordato che l’operato dell’Aif, alla fine, si è inserito nel solco delle scelte operate dai superiori e che altri soggetti avrebbero potuto segnalare quanto stava accadendo.
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